Battaglia di Iwo Jima
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La battaglia di Iwo Jima (硫黄島の戦い?, Iōtō no tatakai) si svolse durante la guerra nel Pacifico nell'omonima isola giapponese tra le forze statunitensi al comando dell'ammiraglio Raymond Spruance e le truppe dell'esercito imperiale giapponese al comando del generale Tadamichi Kuribayashi, coadiuvate da reparti della marina guidati dal contrammiraglio Toshinosuke Ichimaru.
Battaglia di Iwo Jima parte del teatro del Pacifico della seconda guerra mondiale | |||
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Il Marine Corps War Memorial di Arlington è la riproduzione di una fotografia scattata da Joe Rosenthal, raffigurante alcuni Marine che issano la bandiera statunitense sulla vetta del monte Suribachi | |||
Data | 19 febbraio–26 marzo 1945 | ||
Luogo | Iwo Jima, Giappone | ||
Esito | vittoria statunitense | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
Effettivi | |||
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Voci di battaglie presenti su Wikipedia | |||
Insieme a Okinawa, Iwo Jima rappresentava uno scudo avanzato per le isole metropolitane dell'Impero giapponese che potevano essere coinvolte in uno sbarco degli Alleati: le due posizioni erano perciò presidiate da guarnigioni numerose e bene armate. Anche per gli Stati Uniti, Iwo Jima rivestiva notevole interesse, poiché dagli aeroporti dell'isola sarebbero potute decollare le scorte di caccia ai bombardieri strategici Boeing B-29 Superfortress basati nelle isole Marianne e in Cina[2], che dal giugno 1944 colpivano le industrie e le infrastrutture giapponesi.
I lavori di fortificazione precedenti lo sbarco avevano trasformato l'isola in una vera e propria fortezza che, nonostante i bombardamenti preliminari effettuati dall'8 dicembre 1944, oppose una strenua resistenza alle unità statunitensi, principalmente del Corpo dei Marine, sbarcate il 19 febbraio sotto lo schermo protettivo di una completa supremazia aeronavale. La feroce battaglia si concluse ufficialmente il 26 marzo 1945 con il quasi totale annientamento della guarnigione giapponese e la perdita di oltre 23 000 uomini fra morti e feriti per gli Stati Uniti (unico episodio della campagna di riconquista del Pacifico in cui gli USA soffrirono più perdite dei giapponesi).
Alla fine del 1944 l'Impero giapponese risultava sconfitto su tutti i fronti e si stava preparando a difendere il territorio metropolitano. Tra gennaio e febbraio nel Pacifico centrale le forze dell'ammiraglio Chester Nimitz avevano conquistato le isole Marshall e avevano distrutto la base di Truk nelle Isole Caroline. Altre avanzate erano in corso nelle isole Salomone e in Nuova Guinea mentre in ottobre, dopo la battaglia di Leyte, il generale Douglas MacArthur poté tenere fede alla sua promessa di fare ritorno nelle Filippine. La marina imperiale giapponese, dopo le sconfitte di Midway (giugno 1942), del Mare delle Filippine (giugno 1944) e del Golfo di Leyte (ottobre 1944), era incapace di contrastare la potente marina statunitense dell'ammiraglio Nimitz che garantiva supporto a ogni operazione anfibia del Corpo dei Marine. A ovest l'Impero britannico stava facendo progressi nella campagna della Birmania e aveva allontanato i giapponesi dal confine indiano spingendosi fino al centro del paese[3].
La perdita delle Marianne nel corso dell'estate del 1944 provocò lo sfondamento della cosiddetta "linea interna di difesa" (comprendente isole Caroline, isole Marianne e isole Ogasawara, formate dalle Isole Bonin e Vulcano) e la caduta del comando della 31ª Armata del tenente generale Hideyoshi Obata nel corso della battaglia di Saipan: il 26 giugno il settore delle Ogasawara fu quindi rilevato e posto alle dirette dipendenze degli alti comandi a Tokyo, ma prima della fine del mese sull'isola di Iwo Jima, nelle Vulcano, fu installato il comando della 109ª Divisione di fanteria del tenente generale Tadamichi Kuribayashi, cui fu affidata la difesa del settore[4]. La sconfitta subita rivestì conseguenze strategiche gravissime per l'Impero nipponico, visto che ora i bombardieri strategici Boeing B-29 Superfortress della Ventesima forza aerea erano capaci di attaccare l'arcipelago giapponese dalle Marianne senza bisogno di tappe intermedie. Iwo Jima, dotata di una stazione radar e trovandosi a metà strada della rotta seguita dalle flotte aeree statunitensi, divenne una sentinella per la difesa antiaerea sulle isole principali, che potevano così avere un preavviso di due ore per prepararsi adeguatamente; inoltre l'isola ospitava due aeroporti (ne era in costruzione anche un terzo) e fungeva da rifugio per le unità navali danneggiate[5].
Il nome Iwo Jima rappresenta la pronuncia errata di Iwō-shima («isola dello zolfo» in lingua giapponese): shima è una delle due pronunce dell'ideogramma 島 (isola), ma si è talmente diffusa dopo la guerra che anche i giapponesi ne hanno cambiato la pronuncia in Iwō-jima o Iō-jima secondo una lettura più moderna, come figura in numerosi atlanti. Il nome corretto sarebbe Iwō-tō (più recentemente Iō-tō)[6]. È una delle Isole Ogasawara facenti parte del gruppo delle Isole Vulcano, a circa 1 080 chilometri a sud di Tokyo, 1 130 a nord di Guam e a circa mezza strada tra Tokyo e Saipan (24 754°N, 141 290°E). Accidentata, ha una superficie di 20 chilometri quadrati, è lunga 8 chilometri e larga 4. La sua forma richiama quella di una pera, nella cui parte meridionale si erge un vulcano spento, il Suribachi, alto circa 170 metri; la parte centro-settentrionale è occupata dall'altopiano di Motoyama che si eleva a 90 metri circa sul livello del mare. L'isola, il cui asse principale si estende da sud-ovest a nord-est, è ricoperta da una sabbia d'origine vulcanica, nera, polverosa e sottile che ostacola la crescita della vegetazione, composta da pochi alberi e sterpaglie. L'acqua dolce è praticamente inesistente e questo limitò il numero di abitanti a 1 000–1 100 persone circa, ripartite in quattro villaggi[7].
Stati Uniti
Le forze navali necessarie all'operazione erano riunite nella Task Force 50 (che riuniva tutti i gruppi da combattimento o da supporto alle navi da battaglia della Quinta flotta[8]) che a fine gennaio 1945 era ancorata a Ulithi al comando dell'ammiraglio Raymond Spruance a bordo dell'ammiraglia USS Indianapolis, alla guida dell'intera operazione[9]. La Task Force 50 era suddivisa nei Task Group 50.5 da ricerca e ricognizione con centocinquanta aerei di vario genere; 50.7 per la guerra antisommergibile; 50.8 per il supporto logistico con circa cinquanta navi tra cui sei portaerei di scorta, navi portamunizioni, navi frigorifero, petroliere di squadra e uno schermo antisommergibile con vari cacciatorpediniere; 50.9, chiamato Service Squadron Ten ("Squadrone di servizio Dieci") con circa duecentosessanta navi di tutti i tipi incluse navi cisterna con acqua, navi officina, navi ospedale e navi supporto per i cacciatorpediniere[10].
La pedina operativa per le operazioni anfibie di Spruance era la Task Force 51 del viceammiraglio Richmond Turner[9] (comandante delle forze anfibie nel Pacifico) forte di 495 navi tra cui 43 trasporti d'attacco, 63 LST, 58 LCI e altri 18 LCI convertiti in cannoniere e rinominati LCS[11]. La nave comando scelta fu la USS Eldorado, un trasporto ristrutturato proprio allo scopo di dirigere le operazioni di una grande forza da sbarco: questo tipo di nave rappresentava un'innovazione, in quanto l'ammiraglio Turner durante la campagna di Guadalcanal era stato imbarcato sul normale trasporto d'attacco USS McCawley.
I 71 245 soldati[12] incaricati dello sbarco e del prosieguo delle operazioni terrestri, in gran parte marine veterani,[13] erano inseriti nella Task Force 56 del tenente generale Holland Smith, costituita dal V Corpo anfibio (Task Group 56.1) del maggior generale Harry Schmidt forte della 3ª, 4ª e 5ª Divisione Marine[14][15]. Il maggior generale Graves Erskine comandava la 3ª Divisione con i suoi 17 715 soldati inquadrati nel 3º, 9º e 21º Reggimento; la divisione aveva occupato Guam nell'agosto 1944 e venne assegnata al teatro di Iwo Jima con funzioni di riserva[16], ma il 3º Reggimento rimase sulle navi non partecipando ai combattimenti[13][14]. Il maggior generale Clifton Cates era a capo dei 18 241 soldati della 4ª Divisione suddivisi nel 23º, 24º e 25º Reggimento[14]; la 5ª Divisione, con i suoi 26º, 27º e 28º Reggimento per un totale di 18 311 unità[9], era comandata dal maggior generale Keller Rockey. Entrambe le divisioni si trovavano nelle Hawaii[13] ma, mentre la prima era reduce dei combattimenti a Saipan e Tinian, la seconda era fresca e proveniva dagli Stati Uniti[12]. Il 3º, 4º e 5º Battaglione carri erano presenti con sessantasette carri armati medi M4 Sherman[17].
Il V Corpo era trasportato a bordo delle navi della Task Force 53 (Attack Force) del contrammiraglio Harry Hill[9]. Fu schierata anche la Task Force 52 (Amphibious Support Force) del contrammiraglio William Blandy[9][18] con otto portaerei di scorta, un gruppo di incursori demolitori, navi LCS portamortaio e lanciarazzi, e la Task Force 54 (Gunfire and Covering Force) del contrammiraglio Bertram Rogers[9] con sei vecchie navi da battaglia e cinque incrociatori pesanti, più uno schermo di cacciatorpediniere.
La scorta a distanza fu affidata alla potente Task Force 58 comandata dal viceammiraglio Marc Mitscher, che fu inoltre incaricata di attaccare le coste del Giappone e, in caso necessità, di neutralizzare un possibile attacco della marina imperiale giapponese, che comunque Smith reputava altamente improbabile in base alle informazioni dedotte dalla decrittazione delle comunicazioni nipponiche[19]. Detta Task Force era forte di 7 navi da battaglia, 15 portaerei, 21 incrociatori e 78 cacciatorpediniere[20], ma secondo una pubblicazione della marina edita nel luglio 1945 le forze in carico alla Task Force 58 erano 1 200 aeroplani, 8 navi da battaglia, 16 portaerei, 17 incrociatori e 81 cacciatorpediniere[21]. Nella zona gravitavano inoltre i bombardieri B-24 della Task Force 93 (tenente generale Millard Harmon) stanziati nelle Marianne e la Task Force 94 (viceammiraglio John Hoover) per il supporto logistico e delle comunicazioni[9][22].
Tra i tanti problemi logistici affrontati fu dato rilievo alla fornitura di acqua potabile alle truppe, in quanto l'isola di Iwo Jima era quasi desertica e la poca acqua presente era troppo mineralizzata; pertanto tre cisterne vennero trasformate per il trasporto di acqua con una capacità complessiva di 42 000 000 di galloni (circa 160 000 tonnellate) e venne ordinata la costruzione di due navi distillatrici con una capacità di 450 000 litri al giorno. Inoltre una LST venne modificata in alloggio e mensa galleggiante per servire le navi più piccole come gli LCI e supportare gli equipaggi delle eventuali navi affondate o separati dalle rispettive navi madre[23]. Venne adottata quindi una rigorosa organizzazione che doveva ovviare alle carenze manifestate durante le operazioni anfibie precedenti come la battaglia di Tarawa.
I code talker
Anche a Iwo Jima vennero impiegati dei nativi americani Navajo per effettuare le trasmissioni tattiche in codice, detti code talker; questi operatori parlavano la lingua navajo, della quale non esiste una forma scritta e che allo scoppio della seconda guerra mondiale appena trenta persone erano in grado di parlare fluentemente. Prendendo spunto da un'idea di un veterano della prima guerra mondiale, Philip Johnston, lo stato maggiore dei Marine prese atto che un operatore addestrato era in grado di codificare e trasmettere un messaggio di tre righe in venti secondi contro i trenta minuti di una codifica convenzionale: venne aperta una scuola a Camp Pendleton, California, per addestrare i Navajo arruolati. Il maggiore Howard Connor, ufficiale alle comunicazioni della 5ª Divisione Marine, dichiarò che se "non fosse stato per i Navajo, i marine non avrebbero mai preso Iwo Jima": i sei Navajo assegnati al quartier generale della divisione gestirono infatti nei primi due giorni di combattimento, lavorando 24 ore al giorno e senza commettere errori, ottocento messaggi. I giapponesi, che erano riusciti a penetrare i codici della marina e dell'esercito, non furono mai in grado di decriptare le comunicazioni dei Marines[24].
Giappone
I rinforzi giapponesi cominciarono ad affluire alla fine di febbraio 1944: cinquecento uomini giunsero dalla base navale di Yokosuka e in marzo ulteriori cinquecento arrivarono dall'isola di Chichi-jima. Nel contempo l'arrivo di altri effettivi dalla madrepatria portò la guarnigione di Iwo Jima a oltrepassare i cinquemila uomini. L'armamento comprendeva 13 pezzi d'artiglieria, 200 mitragliatrici tra pesanti e leggere e 4 652 fucili; l'equipaggiamento pesante includeva cannoni costieri da 120 mm, 12 batterie contraeree e 30 cannoni binati contraerei da 25 mm[4].
Nel luglio 1944, successivamente alla caduta di Saipan e del comando della 31ª Armata di stanza sull'isola, il 145º Reggimento di fanteria del colonnello Masuo Ikeda (2 400 uomini[25]) in viaggio per le Isole Marianne fu dirottato su Iwo Jima; nel frattempo tra la fine di giugno e agosto la 109ª Divisione di fanteria al comando del generale Tadamichi Kuribayashi (6 900 effettivi[25]) fu trasportata sull'isola e il 145º Reggimento le fu aggregato[26]; poco dopo fu spostata anche la 2ª Brigata mista indipendente del maggior generale Sadasue Senda (5 200 uomini[25]), prima di stanza a Chichi-jima. Nei tre mesi da giugno ad agosto 1944 vennero quindi spostati a Iwo Jima 9 600 uomini, 7 350 dell'esercito e circa 2 300 della marina[27]: questi rinforzi fecero salire gli effettivi della guarnigione a circa 12 700 uomini. Le unità della marina, che aumentarono a poco più di 7 000 uomini[28], vennero organizzate come "Forza navale terrestre" sotto il comando del contrammiraglio Toshinosuke Ichimaru, equipaggiate come unità di fanteria e addestrate al combattimento terrestre. Nominalmente non esisteva un comando superiore ed esercito e marina imperiali erano chiamati a cooperare lealmente, ma comunque i tre comandi presenti (Forza navale terrestre, 2ª Brigata, 109ª Divisione) operavano in autonomia; sull'isola erano presenti anche il 252º e 901º Gruppo aereo e la 2ª Unità aerea indipendente dell'esercito, operanti da quella che era definita Unità di base aerea n. 52[29].
Malgrado l'affondamento di numerose navi da parte dei sommergibili e delle forze aeree statunitensi, consistenti quantità di materiali giunsero a destinazione durante l'estate e l'autunno 1944. Alla fine dell'anno, il generale Kuribayashi disponeva di 46 pezzi d'artiglieria da 75 mm o di calibro superiore (compresi dodici mortai da 320 mm), di 65 mortai medi da 150 mm e leggeri da 81 mm, di 30 cannoni navali da 80 mm o di calibro superiore e di 94 cannoni antiaerei da 75 mm o di calibro superiore[4]; erano inoltre presenti più di 200 cannoni antiaerei da 20 e da 25 mm e 69 controcarro da 37 e 47 mm. Su Iwo Jima era stata anche installata una serie di apparecchi lanciarazzi da 203 mm derivati da proiettili navali, modificati per accogliere il razzo propulsore: l'ordigno pesava circa 90 chili e aveva gittata compresa tra i 2 e i 3 chilometri; l'arma veniva spostata mediante un carretto in ferro con due ruote. Erano presenti anche altri lanciarazzi con proiettili da 63 chili che probabilmente equipaggiarono tre compagnie di artiglieri[4].
Al generale Kuribayashi fu assegnato il 26º Reggimento carri del tenente colonnello barone Takeichi Nishi: l'unità, forte di seicento uomini e ventotto carri armati, era stata destinata nell'aprile 1944 a Saipan ma, raggiunta Pusan in Corea, sull'isola infuriava ormai la battaglia e quindi venne riassegnata a Iwo Jima. Trasportato in Giappone, il reggimento salpò da Yokohama il 14 luglio a bordo della nave Nisshu Maru, eccetto una compagnia e tredici carri lasciati indietro. Il convoglio con il quale viaggiava fu però attaccato il 18 luglio al largo di Chichi-jima e la Nisshu Maru fu silurata e affondata, perdendo tutti i mezzi; il personale fu invece in gran parte salvato. In agosto quarantasei membri del reggimento tornarono a prendere in consegna in Giappone i rimpiazzi (ventidue tra carri medi Type 97 Chi-Ha e leggeri Type 95 Ha-Go) ma cause rimaste ignote ne ritardarono la partenza fino al 18 dicembre; il 23, quando erano appena tornati sull'isola, un bombardamento navale distrusse tre carri armati[26]. Dapprima il tenente colonnello Nishi pensò di utilizzare i rimanenti diciannove corazzati come reparto itinerante, da impegnare nei punti cruciali del combattimento, ma il terreno accidentato di Iwo Jima lo convinse a far sotterrare i carri armati fino a lasciare fuori solo la torretta; in ogni caso Kuribayashi insistette sulla necessità di addestrare il reggimento anche a contrattacchi, non ritenendo di voler effettuare una difesa completamente statica[30].
Al 19 febbraio 1945, giorno dello sbarco, le fonti stimano gli effettivi giapponesi tra i 20 530 e i 21 060[31], un numero comunque superiore a quello prospettato all'epoca dall'intelligence statunitense, pari a circa 13 000[32].
Stati Uniti
In campo statunitense, dopo la grande vittoria navale presso le Marianne e la conquista delle principali posizioni giapponesi nell'area, si erano sviluppate aspre discussioni tra il generale Douglas MacArthur, comandante del teatro sud-occidentale del Pacifico, e l'ammiraglio Ernest King, capo di stato maggiore della United States Navy: il generale insisteva per attaccare le Filippine e conquistare Formosa[33], usando l'isola come base per sbarcare successivamente in Cina in appoggio a Chiang Kai-shek. L'ammiraglio King sosteneva invece che ogni sforzo andava dirottato alla conquista di una o più posizioni nelle Isole Ogasawara, preferibilmente Iwo Jima a causa dei suoi aeroporti (quelli nelle Marianne erano ancora in costruzione) e della sua posizione geografica; spiegò inoltre nel corso di una conferenza che nel teatro del Pacifico non vi erano sufficienti effettivi per invadere Formosa e sbarcare poi in Cina.[34] Questo punto di vista fu condiviso dall'ammiraglio Chester Nimitz, comandante in capo della flotta del Pacifico, che consigliò la conquista di Iwo Jima adducendo tre ragioni[35]:
- la conquista delle Ogasawara e più in particolare del gruppo delle isole Vulcano era imperativa per agevolare e rendere più efficaci i bombardamenti del territorio metropolitano giapponese (operazione Scavanger) condotti dal XXI Comando bombardieri del generale Henry Arnold: i B-29 che partivano dalle Marianne non erano scortati da caccia, in quanto nessun modello disponibile aveva un'autonomia pari a quella dei bombardieri, che dovevano così percorrere 5 560 chilometri a una quota di 8 500 metri per sfuggire alla caccia e alla contraerea giapponesi. Il volo durava sedici ore e il conseguente consumo di carburante impediva alle formazioni di B-29 di eseguire accurate operazioni di puntamento e lanci precisi; sulla rotta del ritorno, caccia giapponesi decollavano per colpire i bombardieri causando ulteriori perdite. Le estenuanti missioni finivano così con il provocare un notevole affaticamento degli equipaggi[36];
- i radar posti sull'isola di Iwo Jima, la più grande del gruppo, fornivano un allarme precoce che avvisava la contraerea sul continente, che aveva tutto il tempo di organizzare una difesa coordinata. La conquista di Iwo Jima avrebbe eliminato tali problemi: la durata delle incursioni dei B-29 si sarebbe ridotta di quasi la metà per i reparti basati sull'isola, ogni incursione sarebbe stata accompagnata da flottiglie di caccia North American P-51 Mustang e si sarebbe avuto un posto sicuro dove far atterrare i velivoli danneggiati di ritorno alle basi nelle Marianne[36];
- i piani della marina, che prevedevano comunque la conquista delle isole Ryūkyū per invadere il Giappone, potevano essere inficiati dalla presenza nelle Vulcano di numerose forze giapponesi che avrebbero messo in pericolo le future linee di comunicazione.
È sintomatico notare che fin dalla metà del giugno 1944, durante le operazioni nelle Marianne, diversi ufficiali statunitensi avevano caldeggiato lo sbarco sull'isola, allora dotata di scarse difese: le risorse disponibili non furono però distolte dalla campagna in corso o furono concesse al generale MacArthur, che avanzava in Nuova Guinea con obiettivo ultimo la liberazione delle Filippine. Quando a fine agosto il generale Schmidt iniziò uno studio preliminare, dichiarò che l'operazione di conquista era ardua, ma il trascinarsi dei combattimenti nelle Filippine, la cui invasione era iniziata il 20 ottobre, causarono un disinteresse per l'attacco a Iwo Jima[37].
Il 3 ottobre 1944 lo Stato maggiore congiunto diramò a Nimitz l'ordine di occupare Iwo Jima[33], denominata in codice "Rockcrusher"[39]. L'ammiraglio e il suo stato maggiore (composto, tra gli altri, dagli stessi Turner, Smith e Spruance), stabilitisi a Guam per essere più vicini al futuro teatro d'operazioni, vi si applicarono dal 7 ottobre ed elaborarono l'operazione Detachment ("distacco"), stabilita inizialmente per il 20 gennaio 1945, poi rinviata al 3 febbraio e infine al 19 febbraio[38]. L'intera operazione era illustrata nel piano operazioni di Turner lungo 435 pagine e denominato A25-44, cui vennero aggiunte altre cinquanta pagine di correzioni[40]. Lo scopo principale era di mantenere una costante pressione militare sul Giappone e di estendere il controllo statunitense sul Pacifico occidentale. Tre obiettivi specifici contemplati dal piano d'attacco erano la riduzione della forza aeronavale nipponica, la distruzione delle forze terrestri sulle Isole Ogasawara e la presa di Iwo Jima, che doveva essere dotata di una base aerea per la scorta dei bombardieri.
L'operazione di sbarco era relativamente semplice: i marine avrebbero dovuto prendere piede nella striscia di spiaggia lunga circa 3 chilometri che andava dal monte Suribachi al punto noto come "East Boat Basin", nella porzione sud-orientale dell'isola.[41] All'ora prefissata di inizio (in gergo militare "ora H") 68 veicoli anfibi del tipo LVT dovevano raggiungere la spiaggia nella prima ondata, seguiti da altri 83 nella seconda e da un numero variabile dalla terza alla quinta ondata; nella sesta ondata gli LCM e gli LCVP sarebbero approdati sulle spiagge definite in codice "rosse" e "verdi". Gli LVT sarebbero poi avanzati verso l'interno, fino a raggiungere il primo terrapieno oltre il livello dell'alta marea; giunti qui avrebbero quindi utilizzato i loro obici da 75 mm e le mitragliatrici per impegnare il più possibile la difesa giapponese e permettere alle successive ondate di marine (otto battaglioni di fanteria) di approdare facilmente e senza eccessive perdite: i reparti erano caricati su 482 cingolati LVT a loro volta trasportati dagli LST[42]. Ai vari reparti venne affidato uno dei sette settori in cui era stata divisa la spiaggia, lunghi ognuno 914 metri e chiamati in codice con un colore e un numero: da sinistra verso destra Green (1 e 2/28[43]), Red 1 (2/27), Red 2 (1/27), Yellow 1 (1/23), Yellow 2 (2/23), Blue 1 (1 e 3/25) e Blue 2, quest'ultimo in realtà trascurato a causa della sua posizione troppo esposta ai cannoni posizionati nelle cave dominanti l'East Boat Basin[41].
Presa la spiaggia, il 28º Reggimento si sarebbe diretto verso il Suribachi e la parte opposta della costa, mentre alla sua destra il 27º Reggimento avrebbe attraversato l'isola muovendo verso nord, affiancato a destra dal 23º Reggimento che, una volta preso possesso dell'aeroporto n. 1, avrebbe proseguito verso l'interno conquistando anche l'aeroporto n. 2. All'estrema destra dello schieramento statunitense il 25º Reggimento aveva il gravoso compito di neutralizzare le postazioni giapponesi che dall'alto dominavano l'East Boat Basin[41].
Giappone
Il piano di difesa
I primi provvedimenti presi dal generale Kuribayashi furono tesi a riorganizzare l'antiquato sistema difensivo dell'isola che aveva trovato al suo arrivo. Dopo aver evacuato a fine luglio la popolazione civile, in quanto avrebbe comportato un inutile spreco di viveri[44], cominciò a elaborare i primi piani difensivi assieme al contrammiraglio Toshinosuke Ichimaru, giunto il 10 agosto: il generale e il suo stato maggiore, memori delle battaglie passate, sapevano che né rifugi di superficie, né casematte sulle spiagge potevano resistere a lungo a un intenso cannoneggiamento[45]; decisero di fissare il fulcro della difesa attorno al monte Suribachi e sull'altopiano di Motoyama, lasciando poche forze sulla costa e tenendo il grosso della guarnigione pronto per ricacciare in mare gli attaccanti, colpiti dal fuoco d'infilata[46]. Gli ufficiali della marina si opposero a tale tattica, volendo invece fortificare pesantemente le spiagge prospicienti l'aeroporto n. 1 e combattere lì gli statunitensi; dopo alcune discussioni, ad agosto Kuribayashi permise alla marina di realizzare tali difese e distaccò un battaglione per presidiarle[47].
Entro il gennaio 1945 il generale aveva adottato il piano definitivo: volendo sfruttare al massimo la conformazione del terreno e le ristrette dimensioni dell'isola, Kuribayashi vietò i grandi contrattacchi alla testa di ponte, le vane cariche banzai e le ritirate; la guarnigione doveva asserragliarsi nelle opere di difesa, infliggere il massimo delle perdite e morire sul posto. Organizzò quindi due linee fortificate. La prima era orientata secondo un asse nord-ovest - sud-est: dalle scogliere sulla costa settentrionale, correva a sud includendo l'aeroporto n. 2, poi piegava a est attraverso il villaggio di Minami e terminava nell'area accidentata detta East Boat Basin, a destra delle spiagge da sbarco; era formata da cinture di casematte e bunker in grado di coprirsi a vicenda, traeva vantaggio dal terreno ed era coadiuvata da una parte dei carri, interrati e mimetizzati. La seconda iniziava alcune centinaia di metri prima di Punta Kitano a nord, attraversava l'incompiuto aeroporto n. 3 e il villaggio di Motoyama, piegando infine a sud tra Punta Tachiiwa e l'East Boat Basin; questa linea conteneva poche fortificazioni artificiali poiché i giapponesi sfruttarono intelligentemente l'aspra natura del terreno. Infine fece del monte Suribachi un settore difensivo semindipendente, assegnato al 312º Battaglione fanteria: l'istmo sarebbe stato difeso dal fuoco incrociato proveniente dall'altopiano a nord e dalle armi installate nel vulcano, tra le quali apparati lanciarazzi. Si preoccupò anche di addestrare le truppe a lanciare contrattacchi locali (anche con carri armati) coordinati con l'artiglieria[47].
Il 1º dicembre il generale emanò una serie di ordini operativi a tutte le unità che imponevano di collaudare entro l'11 febbraio 1945 la praticità delle fortificazioni esistenti e di migliorarle, se necessario, moltiplicando gli ostacoli anticarro (fossi, terrazzamenti, ostruzioni), rinforzando le trincee di fuga e collegamento, creando trincee "di attesa" da sfruttare in combattimento ravvicinato e per la fuga, edificando opere difensive a protezione degli acquartieramenti; gli ordini puntualizzavano che oltre la metà del tempo a disposizione doveva comunque essere dedicata a frequenti esercitazioni[48].
Fortificazioni e gallerie
In ottemperanza al piano, il generale Kuribayashi ordinò che si scavasse una rete di elaborati tunnel che fungessero da collegamento tra i principali fortilizi e da ricovero per le truppe durante gli inevitabili attacchi aerei preparatori. A tal proposito furono inviati sull'isola degli ingegneri minerari per verificare la fattibilità del piano e nel caso progettare il sistema di gallerie: vista la friabilità della roccia vulcanica si procedette rapidamente allo scavo.
Il 25% della guarnigione fu distaccato a scavare chilometri di gallerie disposte su vari livelli: permettevano la comunicazione tra le caverne naturali con quelle scavate dai giapponesi, affiancate da diverse camere sotterranee in grado di contenere anche 300–400 persone. Per evitare che il personale rimanesse intrappolato sottoterra, tutte le opere furono dotate di accessi multipli, scale e passaggi comunicanti, alcuni a fondo cieco per eventuali intrusi; gli ingressi che davano alla superficie furono scavati in modo da ridurre gli effetti delle esplosioni nelle vicinanze; una particolare cura fu dedicata alla ventilazione, poiché in molte delle opere sotterranee erano presenti esalazioni di zolfo. I tunnel più profondi si trovavano 23 metri sotto la superficie e molti avevano anche l'illuminazione elettrica o a olio[44]. In contemporanea fu varato l'ambizioso progetto di creare un enorme tunnel che collegasse tutte le varie camere e grotte, per un totale di 38 chilometri, ma al momento dello sbarco solo una porzione di 5 chilometri era stata completata. Il personale giapponese impegnato profuse il massimo sforzo: oltre al pesante lavoro fisico, gli uomini erano esposti a temperature di 30–50 °C così come ai vapori di zolfo, che li obbligavano a indossare maschere antigas; in molti casi un lavoratore doveva essere sostituito dopo solo cinque o sette minuti[49].
Allo stesso tempo i 1 233 membri del 204º Battaglione navale da costruzione lavorarono alle fortificazioni in superficie, per le quali si sfruttò la cenere vulcanica, presente in abbondanza sull'isola, mista a calcestruzzo. I lavori iniziarono nell'ottobre 1944: furono edificate centinaia di casematte, fortini e postazioni blindate interrate a mezzo, comunicanti mediante la rete di tunnel e capaci di coprirsi a vicenda per tutta la lunghezza dell'isola[50]; molte posizioni erano protette da tre metri di cemento armato ed erano quindi in grado di resistere anche a cannoni navali di grosso calibro. Davanti alle postazioni vennero elevate ulteriori protezioni con mucchi di sabbia vulcanica di circa 15 metri di altezza, che lasciavano a ogni installazione uno stretto campo di tiro (l'efficacia del tiro incrociato non fu comunque diminuita proprio grazie al numero complessivo delle opere fortificate). Particolare attenzione venne dedicata ai campi di aviazione per poter contrastare efficacemente eventuali aviosbarchi, provvedendo inoltre a circondarli con fossati anticarro[30]. Furono infine disseminate migliaia di mine e tutti i sentieri furono posti sotto il tiro incrociato di cannoni anticarro. Le fortificazioni di Iwo Jima erano la più alta espressione delle tecniche giapponesi in fatto di difesa statica: la loro efficienza, riconosciuta anche degli esperti statunitensi che visitarono il luogo, non ebbe eguali in nessun'altra posizione insulare che sostenne uno sbarco durante la guerra[51]. I lavori furono rallentati dalla necessità di riparare i danni inferti agli aeroporti dai raid aerei, una circostanza che inficiava inoltre le sessioni d'addestramento; tuttavia, essendo le piste fondamentali per ricevere rifornimenti e munizioni (le rotte marittime erano troppo soggette alla minaccia aerea e dei sommergibili), tali interventi furono demandati a una parte importante della guarnigione[49].
Più a sud, sulla collina 382, i giapponesi eressero una stazione radio e meteorologica. Nelle vicinanze, su un punto elevato a sud-est della stazione, un enorme fortino fungeva da quartier generale per il colonnello Chosaku Kaidō, comandante dell'artiglieria[30]. Il principale centro di comunicazione con il Gran quartier generale imperiale fu installato appena a sud del villaggio di Kita: era una grande casamatta in cemento armato, con mura spesse 15 metri e soffitto di 30 metri, a protezione di una camera lunga 50 metri e larga 20; servita da un tunnel lungo 150 metri scavato a più di 20 metri di profondità, ospitava circa venti radio con un operatore ogni due o tre apparecchi. Il generale Kuribayashi fece inoltre preparare un posto di comando secondario per sé e per lo stato maggiore della "Forza navale terrestre" a circa 450 metri a nord-est di Kita[52].