Carlo Gesualdo
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Carlo Gesualdo, noto anche come Gesualdo da Venosa (Venosa, 8 marzo 1566 – Gesualdo, 8 settembre 1613), è stato un compositore italiano e membro della nobiltà del Regno di Napoli del tardo Rinascimento[3].
Carlo Gesualdo | |
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Particolare della Pala del Perdono che mostra l'unico ritratto ad oggi considerato autentico di Carlo Gesualdo[1][2] | |
Principe di Venosa | |
In carica | 1596 – 1613 |
Altri titoli | Conte di Conza Signore di Gesualdo |
Nascita | Venosa, 8 marzo 1566 |
Morte | Gesualdo, 8 settembre 1613 (47 anni) |
Luogo di sepoltura | Chiesa del Gesù Nuovo |
Dinastia | Gesualdo |
Padre | Fabrizio II Gesualdo |
Madre | Geronima Borromeo |
Coniugi | Maria d'Avalos Eleonora d'Este |
Figli | Emanuele Alfonsino |
Religione | Cattolicesimo |
Discendente di Guglielmo di Gesualdo e di una famiglia che vantava origini normanne, principe di Venosa, conte di Conza, barone di Montefusco, Gesualdo è conosciuto soprattutto per l'omicidio eseguito nel 1590 ai danni della sua prima moglie Maria d'Avalos e del suo amante, Fabrizio II Carafa, sorpresi in flagranza di adulterio.
Rappresentante accanto a Luzzasco Luzzaschi, Luca Marenzio e Claudio Monteverdi del madrigale italiano nella sua massima espressione, il suo status privilegiato gli consentì grande libertà artistica nella stesura delle sue composizioni. I suoi lavori, alcuni dei quali andati perduti e quasi interamente dedicati alla voce trattata in polifonia, inglobano sei raccolte di madrigali e tre raccolte di musica religiosa.[4]
La reputazione che si guadagnò il Gesualdo di principe compositore e assassino gli impedì di sprofondare completamente nell'oblio. Storici e musicologi sono rimasti presto affascinati dalla sua tumultuosa storia personale, circostanza che ha confezionato, attorno all'aristocratico, una vera e propria "leggenda nera" nel corso dei secoli, poi variamente ricostruita, interpretata e giudicata in ogni epoca successiva ponendo l'attenzione sui suoi valori morali.[5]
A partire dal 1950, la riscoperta delle sue partiture ha segnato l'inizio di un crescente interesse per il lavoro di Gesualdo. Direttamente accessibile e scevra da pregiudizi accademici, la sua musica raggiunge oggi un vasto pubblico grazie alla sua forza espressiva e originalità, in particolare nel campo armonico.[6] Il musicista ha ispirato anche vari compositori, che concordano nel considerarlo come un maestro dalla personalità ambigua e affascinante.
Giovinezza
L'anno della nascita di Gesualdo è stato a lungo oggetto di congetture: in passato, le due correnti principali proponevano il 1557 o il 1560, o ancora il 1562 o il 1564, fino al ritrovamento di due lettere conservate nel gruppo della Biblioteca Ambrosiana di Milano.[7][8] La prima, datata 21 febbraio 1566 e indirizzata da Geronima Borromeo al fratello Carlo, arcivescovo di Milano, annuncia l'imminente nascita di un bambino che, se maschio, sarebbe stato Carlo «per amore di Vostra Signoria Illustrissima».[9][10]
La seconda lettera, datata 30 marzo 1566, anch'essa indirizzata a Carlo Borromeo, conferma che la data fosse l'8 marzo 1566: in quel giorno, «è nato un figlio maschio della signora Borromeo, di nome Carlo». Secondo Denis Morrier, le due missive non lasciano spazio a dubbi ulteriori.[9] Glenn Watkins, uno specialista statunitense che si è interessato alla figura del nobile campano-lucano, afferma tuttavia che la questione relativa alla data di nascita del principe non è stata ufficialmente risolta fino al 2009.[11]
Carlo Gesualdo crebbe in una famiglia aristocratica con stretti legami con la Chiesa: tra i suoi zii spiccavano i cardinali Alfonso Gesualdo e Carlo Borromeo, così come il papa Pio IV tra i prozii.[12] Ultimo dei quattro figli del principe Fabrizio Gesualdo e di Geronima Borromeo (dopo il fratello Luigi, nato nel 1563, la sorella Isabella, nata nel 1564, e Vittoria, nata nel 1565), era destinato a intraprendere la carriera ecclesiastica, in quanto la sorte che gli toccò in futuro era solitamente riservata al primogenito.[13] Con ogni probabilità, Carlo trascorse la giovinezza a studiare.[14]
La corte napoletana del padre vedeva la presenza, tra gli altri, di musicisti, quali Scipione Dentice, Pomponio Nenna e Giovanni de Macque, e teorici, come Mutio Effrem.[15][16] Carlo Gesualdo si avvicinò alla musica sin dalla tenera età, in particolare al liuto e alla composizione.[17]
Nel 1585, il fratello Luigi, all'epoca ventunenne e non ancora sposato né con eredi maschi, subì una caduta da cavallo e morì.[18][19] Questo evento fece di Carlo, diciottenne, l'unico erede dei titoli e delle tenute paterne, ragion per cui ci si mosse in fretta per organizzare le sue nozze.[20] La scelta finale ricadde su Maria d'Avalos, figlia di Carlo d'Avalos, marchese di Montesarchio, e cugina di primo grado dell'aristocratico, ragion per cui occorse una dispensa papale.[21] Maria aveva già avuto precedentemente due mariti e dei figli.[22]
Primo matrimonio
La novità dei doveri imposti a Carlo, per i quali la sua carriera precedente lo aveva a malapena preparato, unita al fatto che Maria avesse quattro anni in più del marito, non fu senza conseguenze nel rapporto coniugale, poi culminato in maniera tragica.[nota 1][23]
Il matrimonio tra Carlo Gesualdo e Maria d'Avalos si tenne il 28 febbraio 1586 nella basilica di San Domenico Maggiore di Napoli.[24] I festeggiamenti per le nozze durarono diversi giorni nel palazzo di Sangro, dove egli risiedeva.[25] A questo periodo risalgono anche i primi brani pubblicati dal giovane compositore.[26]
Pare che la coppia formata da Carlo e Maria visse in maniera felice per due o tre anni, ovvero per Cecil Gray il tempo massimo entro cui Maria riuscì a sopportare l'unione, durante il quale fu dato alla luce un figlio di nome Emanuele; nei mesi che anticiparono la morte, tuttavia, l'uomo assunse l'abitudine di picchiare e insultare la consorte.[25]
La relazione col tempo s'incancrenì e Gesualdo cominciò a diventare sospettoso nei confronti della moglie. La notte in cui Maria fu sorpresa con il suo amante, tra il 16 e il 17 ottobre 1590, è nota grazie a tre diverse testimonianze, le quali riepilogano tra l'altro la vicenda: si tratta dei resoconti delle indagini condotte dai giudici del Gran Tribunale del vicariato del Regno di Napoli, di una lettera di Silvia Albana, la domestica di Maria, e di quella di Pietro Malitiale, detto Bardotto, servo di Carlo (queste ultime due invero più complete di dettagli).[27][28][29]
Secondo questo resoconto dei fatti:
«Su la mezza notte ritornò al palaggio il Principe, accompagnato da una truppa di cavalieri amici e parenti tutti armati; ed entrato dentro al Palaggio della Principessa, avanti della quale camera stava di scorta a sentinella la fida di lei cameriera Laura Scala, mezza addormentata su di un letto, che, sentendo il rumore gente, volle gridare; ma minacciata della vita dal Principe si ritrasse più morta che viva, il quale attendeva con un calcio la porta della camera e, tutto furibondo entrando dentro di essa con la continua scorta, trovò che nuda in letto, ed in braccia al Duca giaceva sua moglie (fra tanto la buona cameriera, visto il tempo opportuno, essendo tutti entrati dentro la camera, se ne fuggì via, né si seppe di lei più novella alcuna). A sì vista si può considerare come restasse stupito il povero Principe, il quale scossosi dallo stordimento che l'avea posto tal veduta, prima che li sonnacchiosi potessero rifiatare, si mirarono da più pugnali trafitti. Questo misfatto successe nella notte che si seguiva il giorno del 16 ottobre 1590.[30]»
Un'altra versione riferisce:
«[Bardotto, servitore del principe] quando scese al cortiglio vidde che lo portiello dela porta dela strada stava aperto ch'esso testimonio se ne maravigliò molto, che a quella hora stesse aperto, et lo chiuse, tirò l'acqua dal puzzo, et la portò ad alto al signor don Carlo, che lo trovò che si era vestito, et [...] [gli chiese] dove voleva andare, ch'erano sei ore, e niente più, il quale Signor Don Carlo li disse, che voleva andare a caccia, et esso testimoniali disse, che quella ora non era ora di caccia, il Signor Don Carlo li rispose: «Vedrai, che caccia farò io»[.] Si finì di vestire et ordinò ad esso testimonio, che allumasse due torcie, che stavano alla camera [...] et allumate che furono, detto signor Don Carlo cacciò da sotto il letto una [...] daga con pugnale, et uno archibugetto da due palmi incirca, e pigliato ch'ebbe esto [...] trasì, e salì per questo caracole ad alto (una scala a chiocciola segreta) ad alto che saglie all'appartamento della signora Donna Maria d'Avalos, e sagliendo anche detto Don Carlo disse ad esso testimonio: «Voglio andare ad ammazzare lo duca d'Andria, e quella bagascia di Donna Maria!». E così sagliendo vide esso testimonio tre uomini (tre bravacci) li quali portavano una alabarda per uno ed un archebugetto! [...] Esplosero due colpi, oltre a vari insulti; i tre giovani uscirono e poi fu la volta di Carlo Gesualdo, che aveva le mani coperte di sangue. Chiese subito dove fosse Laura, l'intermediario, visto che era andata via. Bardotto e Gesualdo tornarono quindi in camera da letto, dove quest'ultimo aveva eliminato la coppia morente.[31][32]»
Questo resoconto è ritenuto da alcuni il più affidabile, oltre a figurare tra i più analizzati.[33] Tuttavia, molti dettagli rimangono contraddittori; l'analisi dettagliata dei verbali ha portato Cecil Gray a dubitare della veridicità di alcuni elementi riportati, a cominciare dalla trappola tesa dal giovane principe, che annunciò la sua intenzione di andare a caccia, che sembra ripresa da una frase pronunciata dal sultano Shahriyār in Le mille e una notte, la famosa opera frutto di pura fantasia.[34] Inoltre, dettaglio di non secondaria rilevanza, è plausibile ritenere che Carlo non uccise con le sue mani i due, ma che avesse assoldato qualche mandante che lo facesse per lui.[35][36][37]
Il tragico esito del suo matrimonio è all'origine della fama di Carlo Gesualdo, che divenne il "compositore assassino" nella storia della musica.[nota 2]
L'esilio a Gesualdo
Subito dopo il misfatto di Napoli, Carlo si spostò a Gesualdo, in Irpinia. Il processo venne archiviato il giorno dopo la sua apertura «per ordine del Viceré, stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso don Carlo Gesualdo, Principe di Venosa, ad ammazzare sua moglie e il duca d'Andria».[38] I fatti emersi dalle deposizioni non lasciavano dubbi: Maria d'Avalos era l'amante di Fabrizio Carafa (cosa, del resto, da tempo risaputa da tutti, dallo stesso magistrato, dall'avvocato e dal viceré).[39] L'intero regno di Napoli si appassionò a questa vicenda, così come la nobiltà romana dello Stato Pontificio.[40] Se certe azioni sono corroborate da diverse testimonianze, (come il fatto che Gesualdo abbia gridato ai suoi uomini: «Uccideteli, uccidete questo vile e questa puttana! Corna alla famiglia Gesualdo?» prima di tornare da Maria gridando» Non deve essere ancora morta!», per causarle altre ferite nella zona dell'addome inferiore), altri elementi rientrerebbero nella pura finzione.[32][41] È impossibile dire se i corpi degli innamorati siano stati gettati per strada, se fossero stati violentati da un monaco cappuccino, se siano rimasti impiccati fino a quando la loro putrefazione fosse diventata tale da rendere necessaria la sepoltura, al fine di evitare un'epidemia, o se invece le salme siano state riconsegnate alle rispettive famiglie, «lavate dalle loro ferite, vestite di raso nero e velluto nero», come sembra più probabile secondo i documenti d'archivio dal XVII secolo.[42][43][44]
La colpa di Maria d'Avalos appariva, per il diritto del tempo, indubbia: il marito, godendo della facoltà di farlo, aveva agito per vendicare l'onore proprio e quello della famiglia.[29] Glenn Watkins osserva che era usanza degli ambienti spagnoli, dunque anche di Napoli, prodigarsi per uccidere la donna adultera insieme all'amante, mentre, nel Nord Italia, la tradizione prevedeva solo la morte della moglie.[45] I membri della famiglia Carafa contestavano in particolare a Gesualdo di aver fatto ricorso alla servitù per trucidare il loro parente.[46] Per questo, si comprende come una punizione così severa riservata agli amanti, anche se comunemente accettata all'epoca, spronò Carlo a rifugiarsi a Gesualdo, lontano dagli ambienti nobiliari e dalle famiglie delle vittime.[47][48]
L'esilio fu accompagnato da altri "ritiri" forzati di membri della sua casata, nonostante l'intervento del viceré di Napoli Juan de Zuñiga volto a contenere qualsiasi proposito di vendetta verso il Gesualdo e i suoi affini.[49][50] Suo padre Fabrizio morì il 2 dicembre 1591, lontano da Napoli, nel castello a Calitri.[51] In dodici mesi di esilio, Carlo Gesualdo diveniva così, all'età di venticinque anni, capofamiglia e uno dei più ricchi proprietari terrieri di tutto il Mezzogiorno.[29]
Secondo matrimonio
Gesualdo si sposò una seconda volta con Eleonora d'Este (riportata anche come Leonora), sorella di Cesare d'Este, erede apparente del duca Alfonso II, nel 1594.[52] Lasciando i propri possedimenti per stabilirsi a Ferrara, all'epoca importante centro musicale, il compositore trovò terreno fertile per il suo sviluppo artistico. Lo stesso anno furono pubblicati da Vittorio Baldini, editore presso la corte ducale, i suoi primi due libri di madrigali.[53]
Le nozze, i cui preparativi sembrarono far superare all'uxoricida il suo passato, erano state imbastite dal cardinale Gesualdo (zio del principe, allora considerato in corsa per il soglio pontificio), e dal duca Alfonso II per motivi politici complessi. La tela di questa nuova e prestigiosa unione, se da un lato mirava a sottrarre il Gesualdo a un isolamento troppo lungo e intellettualmente sterile, inserendolo in un ambiente culturalmente vivacissimo come quello ferrarese, dall'altro corrispondeva alle aspettative - andate poi deluse - di Alfonso II d'Este di impedire con l'appoggio del potente cardinale napoletano che Ferrara tornasse alla Chiesa dopo la sua morte.[29][54] Nel lento viaggio verso la città estense, Carlo fece, alla fine del 1593, una sosta a Roma, dove incontrò Jacopo Corsi e quel celebre «fiorentino che canta sul chitarrone», Francesco Rasi.[55]
Una volta giunto in Romagna, la combinazione delle nozze dimostrò subito delle crepe: molto impaziente e desideroso di incontrare la futura moglie, «mostrandosi in questo un personaggio napuletanissimo», apparve presto evidente che Gesualdo si interessasse piuttosto alle attività musicali della corte di Alfonso II che a Eleonora; il suo carattere particolare fu presto notato da vari membri della cerchia ducale, ma è Alfonso stesso a tracciarne un profilo abbastanza dettagliato:[56][57]
«Il Principe poi, se bene a prima vista non ha presenza di quello che è, si fa però di mano in mano più grato, et io per me mi compiaccio sufficientemente dell'aspetto suo. Non ho visto la vita perché porta un palandrano lungo quanto una robba da notte. [...] Ragiona molto et non dà segno alcuno, se non forse nell'effigie, di malenconico. Tratta di caccia e di musica et si dichiara professore dell'una et dell'altra. Sopra la caccia non s'è esteso meco più che tanto, perché non ha trovato da me troppo riscontro, ma della Musica m'ha detto tanto ch'io non ne ho udito altrettanto in un anno.[58][59]»
La donna a lui promessa aveva allora trentadue anni, cinque in più del principe, ed era considerata di età superiore alla media ritenuta idonea per le consuetudini dell'epoca. Il contratto di matrimonio venne firmato il 28 marzo 1593.[60] Più tardi, da Ferrara i novelli sposi passarono a Venezia nel 1594; partendo da lì, via mare, e raggiungendo a metà agosto Barletta, proseguirono infine per l'Irpinia.[36] Gesualdo aveva avuto un figlio dal primo matrimonio, Emanuele, nato nel 1587 o nel 1588.[26] Poiché Eleonora era incinta, nel dicembre dello stesso anno ritornarono a Ferrara, dove rimasero per circa due anni e dove nacque il figlio, Alfonsino, nel 1595.[61]
I rapporti tra il principe e la principessa di Venosa con il tempo si deteriorarono irreparabilmente: Leonora non lasciò Ferrara quando Gesualdo si era ritirato in Irpinia nel 1596 e si unì a lui solo dopo la morte di Alfonso II, avvenuta il 27 ottobre 1597.[62] Alle insistenti preghiere che gli giungevano dalla Romagna perché vi facesse ritorno, la principessa di Venosa cedette alle richieste nel dicembre del 1597, quando al fianco del conte Sanseverino e dell'immancabile conte Fontanelli raggiunse con il figlio il castello della città lucana, accolta con «honori infiniti» dal marito, con il quale poi, nel maggio successivo, mosse alla volta di Gesualdo.[63] Seguirono anni di sofferenze, per il pessimo trattamento riservatole dal marito, come emerge dalle missive inviate nel 1600, e per la perdita del figlio Alfonsino, vivendo come «martire volontaria in Regno, a patire il Purgatorio in questa vita, per godere il Paradiso nell'altra».[64] La dipartita prematura del pargolo, avvenuta il 22 ottobre del 1600, fu causata da insufficienze respiratorie dopo quattro giorni di febbre, secondo la corrispondenza tra Cesare e suo fratello Alessandro d'Este; nei racconti di epoca successiva, talvolta la morte viene attribuita allo stesso Carlo.[65][66]
Successivamente la nobildonna risultò più volte assente dalla corte di Gesualdo per ricongiungersi a quella della sua famiglia, a Modena, dal 1607 al 1608, poi dal 1609 al 1610, con irritazione del marito, che la esortò a tornare alla casa coniugale.[67] Lo strettissimo legame tra Leonora, i suoi fratelli e uno dei suoi fratellastri calamitò maliziose allusioni: nel suo studio su Carlo Gesualdo, prince of Venosa, musician and murderer, Cecil Gray evocava una relazione incestuosa tra Leonora e questo fratellastro cardinale.[68] Da parte sua, Gesualdo riconosceva un figlio illegittimo, Antonio, al quale assegnava una rendita mensile.[nota 3] Nella coppia principesca, nessuno dei due coniugi era particolarmente fedele o «virtuoso».[68]
Il 22 ottobre 1607 il figlio del principe, Emanuele, sposò Maria Polissena di Fürstenberg,[69] principessa di Boemia[70] e scelse Venosa come sua residenza privilegiata. In quella città, «la fiorente stagione artistica portò alla nascita di una nuova accademia dei Rinascenti», confluita sotto la protezione dello stesso principe il 26 marzo 1612.[71] Egli volle per sé la carica di lettore e assunse il soprannome di Schivo.[71] Il loro figlio Carlo nacque nel febbraio del 1610, ma morì nel mese di ottobre, evento che rattristò il compositore.[72] Lo stesso anno, lo zio Carlo Borromeo fu canonizzato.[73] Questa sequela di eventi segnò profondamente il nobile e potrebbe aver costituito il punto di partenza dei suoi atti di dolore, eseguiti in maniera così sentita da spingerlo ad accettare in seguito le pratiche di fustigazione che contribuirono ulteriormente alla sua fama postuma.[74]
Isolamento
Nell'immaginario popolare, i crimini di Gesualdo tornarono a perseguitarlo verso la fine della vita. La scomparsa del secondo figlio venne considerata da quest'uomo, assai religioso, come opera della giustizia divina, una condanna per i suoi peccati che necessitava di un percorso di espiazione.[75] Questo spiegherebbe le pratiche masochiste del compositore, che reclutò alcuni ragazzi in età adolescente per fustigarlo e scacciare i demoni che lo perseguitavano.[76]
Tra gli altri esercizi di mortificazione della carne, (come la recita dell'"Atto di dolore"), le pratiche di penitenza, severe se non stravaganti, furono incoraggiate all'epoca dalla spiritualità nata dalla Controriforma. Risulta ragionevole considerare questi metodi legati alla fervente devozione che attanagliò Gesualdo alla fine della sua vita, piuttosto che a un piacere morboso o perverso.[77]
Nel 1611, e poi di nuovo l'anno successivo, il principe ottenne le reliquie di Carlo Borromeo, diventato suo ideale padrino e santo patrono.[78] In una lettera del 1º agosto 1612, ringraziava il cugino, il cardinale Federico Borromeo:
«Non potevo aspettarmi o ricevere oggi dalla gentilezza di Vostra Signoria Illustrata una grazia più preziosa, né più desiderata di quella che si degnò di concedermi con il sandalo che il glorioso San Carlo usava pontificamente. L'ho salutata e baciata con grande gioia e consolazione, ma sarà preservata e trattenuta con il dovuto rispetto e devozione.[79]»
Con lo stesso spirito, Gesualdo aveva offerto nella sua cappella, nel 1609, un grande dipinto per l'altare maggiore, ultimato da Giovanni Balducci, che rappresenta il giudizio universale. Qui Gesualdo appare con la seconda moglie nell'atto di implorare il Cristo: al suo fianco si trova anche lo zio materno Carlo Borromeo nella posizione di protettore, mentre Maria Maddalena, la Vergine Maria, Francesco d'Assisi, Domenico di Guzmán e Caterina da Siena intercedono tutti per ottenere la remissione dei suoi peccati.[80][81]
Sempre nel 1611, Gesualdo fece stampare la sua opera più lunga, la Tenebrae Responsoria per sei voci, dove la figura di Cristo martire è espressa musicalmente in modo toccante e assolutamente personale.[82][83]
Morte
Il 20 agosto 1613, Emanuele Gesualdo perì «per esser in doi volte caduto da cavallo nella caccia», allo stesso modo dello zio, fratello di Carlo.[84][85] Sua moglie era incinta di otto mesi e la coppia aveva solo una figlia, Isabella, di due anni. Il principe Carlo Gesualdo, verosimilmente frastornato dalla notizia della morte del figlio, si ritirò nell'anticamera della camera dello Zembalo (la camera da musica con il clavicembalo), dove diciotto giorni dopo, l'8 settembre 1613, si spense, per essersi lasciato andare: «non havendo il signor Prencipe di Venosa altro figliolo, sentette assai et in modo ch'oltre al suo male ancho s'aggravò».[86][87] La nuora, Maria Polissena, diede alla luce una figlia poco tempo dopo e, pertanto, la linea successoria di Gesualdo di Venosa si estinse con il compositore.[88]
Il testamento del principe, redatto pochi giorni prima della sua morte da don Pietro Cappuccio, costituì un ultimo tentativo di conservare tutti i titoli, terre e domini feudali in famiglia, in assenza di filiazione maschile diretta:[89]
«Verum se il postumo che dovrà nascere da detta Donna Polissena serà femmina, in questo caso istituisco mio herede universale sopra di tutti li miei beni la suddetta Donna Isabella, mia nipote [...] ordino et comando a detta Donna Isabella mia nipote che tanto restando herede quandocumque come di sopra, quanto essendo dotata delli cento mille ducati, debba pigliare per marito il primogenito di Don Cesare [Gesualdo] et in difetto del primo debba pigliare il secondo et in difetto del secondo il terzo [i figli di Cesare], et così s'intende degli altri per ordine, et mancando la linea dì detto Don Cesare, debba pigliare nello stesso ordine uno dei figli, il più vicino della detta famiglia. et mancando la linea dì detto Don Cesare, debba pigliare nello stesso ordine uno dei figli.[90]»
Comunque queste disposizioni non furono rispettate: la principessa Isabella sposò, nel 1622, don Niccolò Ludovisi, nipote di papa Gregorio XV, della nobiltà romano-bolognese, senza legame alcuno con la dinastia dei Gesualdo.[91][92]
Il principe fu sepolto accanto al figlio Emanuele nella cappella di Santa Maria delle Grazie, ma poi la salma venne trasferita nella chiesa del Gesù Nuovo di Napoli, ai piedi dell'altare dedicato a Ignazio di Loyola, la cui costruzione era stata progettata da Gesualdo prima di morire.[77] Oggi si conosce solo l'ubicazione della sua tomba: dopo il terremoto del 1688, i lavori di ricostruzione dell'edificio religioso rimossero la lapide.[93]
Il rapido susseguirsi di eventi tragici, l'attività frenetica mostrata da Gesualdo nei suoi ultimi giorni e le volontà espresse con autorevolezza nel testamento sono incoerenti con l'immagine del nobile in preda alla pazzia. Le circostanze della sua morte risultano tuttavia oscure.[94] Nel 1632, il cronista Ferrante della Marra afferma nello scritto Rovine di case napoletane del suo tempo:
«Carlo Gesualdo fu assalito ed offeso da gran moltitudine di demoni, li quali non lo feron per molti giorni mai quietare se non dopo che dieci o dodici giovani, che ei tenea a posta per suoi carnefici, non lo caricavano (ed ei sorrideva) tre volte il giorno di asprissime battiture, ed in questo stato miserabilmente se ne morì in Gesualdo.[94]»
Verosimilmente colpito dall'immagine del principe torturato, Michele Giustiniani, di passaggio a Gesualdo, scrive in una lettera datata 10 ottobre 1674 (a oltre sessant'anni dai fatti):
«In questo luogo, il dì 3 settembre del 1613, seguì la morte di Don Carlo Gesualdo, Prencipe di Venosa, eccellentissimo musico, come dimostrano le sue opere stampate, e suonatore di Arcileuto, accelerata da una strana infermità, la quale gli rendeva soavi le percosse che si faceva dare nelle tempie e nelle altre parti del corpo, con fraporvi un involto piccolo di stracci.[95]»
Prima leggenda nera
La nascita di Leonora, la seconda nipote di Gesualdo, fu accolta senza troppo clamore dalla popolazione.[88] La vedova del principe, Leonora, di ritorno a Venosa per assistere alla nascita della principessa Maria Polissena, riporta la notizia al fratello Cesare con queste parole:
«Ho battezzato la bambina, e le sono stati dati i nomi Leonora e Emanuela. È bellissima e qui è il mio passatempo poi che non vuole stare se non da me. Solo che dice mille chiacchiere et mostra giudizio per non avere se non due anni. [...] è nata con i centomila ducati di dote lasciatole dal principe, mio signore. Ma il maggiore, che eredita da tutti gli stati, avrà in dote più di un milione in oro senza contare il resto.[96][97]»
Eleonora d'Este morì nel 1637.[98]
Nel frattempo, la perdita della fortuna e delle proprietà signorili era accompagnata da voci volte a "spiegare" tali grandi disgrazie per effetto di una qualche punizione divina.[99] Si credeva generalmente che la colpa fosse di Carlo Gesualdo, il quale pareva aver perso la ragione e trattava i suoi vassalli con avidità e lussuria, oltre che in modo tirannico, scatenando l'ira di Dio contro di lui.[100]
Pochi giorni dopo la morte di Gesualdo, un cronista modenese, Giovan Battista Spaccini,[101] inaugurò la "leggenda nera" che si concentrò sulla memoria del principe caduto:
«Tra tanto teneva una bellissima concubina, la quale l'aveva affatturato di maniera tale che non poteva vedere la principessa donna (Leonora) e quando lei vi stava lontano moriva di passione di vederla, e poi mai più la guardava. Non poteva mai dormire se uno non vi stesse con lui abbracciato e vi tenisse caldo le rene, e per questo aveva un Castelvietro da Modona v'era molto caro, dormendo continuamente con lui quando non stava la principessa sieco.[85]»
La corte della famiglia Estense si era ritirata a Modena, cacciata da Ferrara dalle truppe papali. Il ricordo della mancata trattativa tra Alfonso II e il cardinale Alfonso Gesualdo, decano del Sacro Collegio e zio del principe, generarono sicuramente risentimento nei confronti del Gesualdo.[12][102] Le maldicenze si diffusero presto da Modena a Napoli, da Roma ad altre regioni dell'Italia. Risulta strano e interessante, tuttavia, osservare che, anche nei racconti più oscuri del tempo della "prigionia" di Gesualdo nel suo castello, si faccia riferimento alla seconda consorte del principe ma mai alla prima, Maria d'Avalos, il cui omicidio, già lontano, pareva sorprendentemente dimenticato da tutti.[103]
Carlo Gesualdo lascia un catalogo di quasi 150 opere, sia vocali che strumentali.[104]
Opere profane
I madrigali di Gesualdo, con il loro contenuto sensuale e doloroso, hanno riscosso grande apprezzamento nei secoli successivi. I critici distinguono i suoi primi due libri di madrigali, dalla scrittura brillante ma convenzionale (in uno stile vicino a quello di Luca Marenzio e ai primi libri di Claudio Monteverdi), dai lavori successivi, caratterizzati da molte insolite modulazioni, cromatismi e, talvolta, figuralismi confusi.[105]
Un primo "libro" sarebbe stato stampato sotto lo pseudonimo "Gioseppe Pilonij", nel 1591.[106][107] In seguito, il compositore inaugurò uno stile più personale, esigente nella tecnica e raffinato nella scrittura. Se il risultato non è mai scontato nei primi libri, è attraverso la scelta di testi musicati, rivelatasi decisiva poiché Gesualdo pratica il «canto affettuoso», che la musica plasma o colora le parole della poesia.[108]
La pubblicazione dei primi quattro Libri dei madrigali in cinque parti è avvenuta a Ferrara: il Primo e il Secondo furono pubblicati lo stesso anno del suo arrivo alla corte di Alfonso II d'Este, nel 1594.[109] Il Terzo libro dei madrigali venne ultimato nel 1595 e il Quarto l'anno seguente.[82] Il compositore affidò in quegli anni tutta la sua produzione all'editore ducale Vittorio Baldini e, nell'arco di un triennio, la maggior parte del lavoro che realizzò, circolando in vari luoghi d'Italia, ne diffuse la fama musicale.
Nel 1611, il principe promosse la fondazione di una stamperia privata nel suo feudo di Gesualdo, trasferendo lo studio di un tipografo napoletano, Giovanni Giacomo Carlino, direttamente nel suo stesso castello.[110][111] In tal modo, egli stesso supervisionò la redazione del Quinto e del Sesto libro dei madrigali a cinque voci.[nota 4]
Gesualdo aveva anche fatto stampare le indicazioni per la corretta conduzione dei suoi madrigali, circostanza che permette a un musicista esperto di cogliere, durante la lettura della partitura, le sottigliezze del contrappunto e delle armonie.[112] I compositori di solito pubblicavano solo le parti vocali separate sufficienti per un'esecuzione in pubblico.[113] Questa pratica «analitica» fu proseguita da padre Molinaro, il quale produsse la prima edizione integrale dei sei libri l'anno della morte di Gesualdo.[114] I compositori delle generazioni successive furono sollecitati a considerare questi brani, al di là del fascino della loro esecuzione, allo scopo di studiarli.[115]
Un ultimo libro di madrigali a sei voci fu pubblicato postumo nel 1626 da Mutio Effrem, musicista al servizio del principe di Venosa.[116] Questa raccolta resta purtroppo molto incompleta, poiché solo la parte di "quinto" è pervenuta a noi; le altre sezioni vocali sono considerate perse.[117] Queste composizioni rispettano alcuni canoni dell'epoca, rimanendo nel complesso riconducibili al linguaggio modale. Tuttavia, spesso ne sperimentano i limiti e talvolta li fanno «esplodere dall'interno», risultando in ultima analisi, assai originali, bizzarre e sorprendenti nel mondo musicale tardo-rinascimentale italiano.[118]
I musicologi del XX secolo, concentrandosi sulla "leggenda nera" che aleggia attorno al compositore, hanno ingigantito la dimensione dei suoi crimini e delle pratiche di penitenza, associandole sistematicamente alle sue opere.[103] Il genio musicale del Gesualdo trovava dunque la sua fonte anche nei colpi di scena del nevrotico senso di colpa, più precisamente nel trauma di un «omicidio a cinque voci», così come lo ha definito Alberto Consiglio.[75][119]
Il cambio di giudizio su quanto realizzato da Carlo Gesualdo emerge soprattutto da Moro, lasso! al mio duolo (numero 17 del Sesto libro), uno dei madrigali più denigrati del compositore da Charles Burney, musicologo classico, ma poi diventato tra i più famosi.[120] Nello spazio di cinque versi, la poesia esprime i paradossi dell'amore utilizzando e abusando del campo lessicale del tormento e del dolore, portando la musica a picchi di tensione armonica:[121]
«Moro, lasso! al mio duolo
E chi mi può dar vita
Ahi che m'ancide e non vuol darmi aita.
O dolorosa sorte:
Chi dar vita mi può, ahi, mi dà morte!»
Opere sacre
Non avendo alcun obbligo di comporre musica religiosa, si potrebbe rimanere sorpresi di rintracciare opere sacre nel catalogo del Gesualdo: tale sentimento può emergere anche dopo aver ascoltato le sue opere profane, improntate alla sensualità.[122] La loro esistenza si può quindi spiegare in virtù di una scelta consapevole, essendo Gesualdo tanto appassionato negli amori profani quanto nella fede in Dio.[122] Fanno inoltre notare gli studiosi che l'ispirazione del principe sembra ancora più personale nei suoi pezzi religiosi. Si pensi all'opinione di Denis Morrier, il quale asserisce che Gesualdo non ha lasciato alcun brano che potesse appartenere all'Ordinario della messa.[123]
Due libri di Sacrae Cantiones furono pubblicati a Napoli nel 1603, riunendo tutti i mottetti composti da Carlo Gesualdo. Il Liber Primus, scritto a cinque voci, è paragonabile ai madrigali più avanzati, mentre il Liber Secundus utilizza un insieme esteso di sei voci (e fino a sette voci per l'Illumina nos, conclusione e climax di questa raccolta), che modifica l'equilibrio e la fusione dei versi del canto.[124] Il compositore presenta questi ultimi mottetti come «composti con un singolare artificio» (singulari artificio compositae) sul frontespizio.[125]
L'ultima raccolta pubblicata da Gesualdo, il ciclo di Tenebrae Responsoria, edita da Giovanni Giacomo Carlino nel palazzo del principe, vide la luce nel 1611. Scritto per sei voci, si tratta della sua impresa più impressionante: tutti i ventisette mottetti tradizionali sono musicati, ossia l'equivalente di due grandi libri di madrigali.[126]
Le sue opere religiose appaiono mature: il compositore si esprime con notevole maestria e spesso sorprendente libertà, date le esigenze del repertorio ecclesiastico.[125] Se preghiere e latino sostituiscono suppliche amorose in lingua vernacolare, lo stile musicale del Gesualdo rimane immediatamente riconoscibile, trattandosi di testi talvolta davvero toccanti[127] La maggioranza dei mottetti si concentra sui temi della redenzione e del perdono dei peccati:[126]
«Peccantem me quotidie, et non me poenitentem
Timor mortis conturbat me
Quia in inferno nulla est redemptio.
Miserere mei, Deus, et salva me.»
«Io, che ogni giorno commetto peccati e non mi pento di essi,
La paura della morte mi travolge
Perché non c'è redenzione all'inferno.
Abbi pietà di me, o Dio, e salvami.»
(Peccantem me quotidie)
La scoperta relativamente recente del Tenebrae Responsoria e del Liber Secundus del nobile ha reso possibile riconsiderare il suo intero lavoro, che alcuni critici moderni ancora tacciavano come frutto di dilettantismo.[128][nota 5] Nella musica religiosa, e più in particolare nei brani dedicati al culto mariano, Gesualdo impiega formule complesse di contrappunto, come il canone rigoroso e il cantus firmus in modo esperto e virtuoso, lasciando all'ascoltatore un'impressione di serena maestà.[128]
Lavori strumentali
La produzione strumentale di Gesualdo si limita a una manciata di brani isolati, che l'autore non volle raccogliere o pubblicare ma che permettono di affrontare aspetti meno noti della sua personalità. Infatti, per i contemporanei, la prima impressione che il giovane principe diede fu quella di un liutista e clavicembalista, particolarmente appassionato dall'improvvisazione dinanzi a una cerchia ristretta.[129]
Nel 1586, quando Gesualdo aveva solo vent'anni, Giovanni de Macque gli pubblicò tre ricercares a quattro voci in un'opera collettiva, accompagnandoli con una piacevole prefazione la quale dimostra che, «oltre ad essere un grande amante di questa scienza [la musica], ha una padronanza così perfetta da aver pochi eguali, sia nel suonare il liuto che nelle attività di composizione».[130] La Gagliarde del principe di Venosa, per quattro voci, e la Canzone francese, per liuto o clavicembalo, sono stati conservati solo sotto forma di manoscritto, il che suggerisce che un gran numero di brani simili fu composto ma andato oggi perduto.[131]
La Canzone francese, ricca di sorprendenti cromatismi e di un grande virtuosismo nella scrittura, è stata oggetto di numerose registrazioni, venendo inserita tra i madrigali di Gesualdo come intermezzo.[129][nota 6]
Opere pubblicate in raccolte collettive
Se alcuni brani composti dal Gesualdo sono andati perduti, anche tra quelli che aveva avuto cura di pubblicare lui stesso, altri sono sopravvissuti grazie all'interesse mostrato per essi da compositori o editori tra i suoi contemporanei. Pertanto (a parte il giovanile mottetto in cinque parti Ne reminiscaris Domine, incluso nel Liber Secundus Motectorum di Stefano Felis, pubblicato da Gardano a Venezia, nel 1585), si tratta di pezzi probabilmente trascurati dal loro autore e prestati o raccolti senza la sua autorizzazione, a volte editi postumi.[132][nota 7]
Così, T'amo mia vita e La mia cara vita, due madrigali in cinque parti, sono inclusi nel Theatro de madrigali a cinque voci, opera collettiva pubblicata da Guagano e Nucci a Napoli, nel 1609. Ite sospiri ardenti, una canzonetta a cinque voci, compare nel Terzo libro di canzonette di Camillo Lambardi realizzato da Vitale a Napoli nel 1616. All'ombra degli amori e Come vivi cor mio, due canzonette a cinque voci, sono integrate nell'Ottavo libro dei madrigali da Pomponio Nenna edito da Robletti, a Roma, nel 1618.[133] In te dominate speravi, mottetto in cinque parti, figura nei Salmi delle compiete de diversi musici napolitani, pubblicato da Beltrano a Napoli, nel 1620.[131] Si devono segnalare altri due brani manoscritti, Il leon'infernal e Dove è interessato a mai, inediti ma conservati presso la Biblioteca Queriniana di Brescia.[133]