Conflitto arabo-israeliano
conflitto politico-militare fra Israele e Paesi arabi / Da Wikipedia, l'enciclopedia encyclopedia
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Il conflitto arabo-israeliano (in arabo الصراع العربي الإسرائيلي?, al-Ṣirāʿ al-ʿarabīyy al-'isrāʾīlīyy, in ebraico הסכסוך הישראלי-ערבי?, ha-sikhsukh ha-israeli-aravi) è un conflitto politico-militare che vede contrapposti lo Stato di Israele da una parte e lo Stato di Palestina e gli Stati arabi circostanti dall'altra.
Le radici del conflitto risiedono nella nascita del sionismo e del nazionalismo palestinese verso la fine del XIX secolo.
Il territorio geografico della Palestina, allora sotto il dominio turco-ottomano, era infatti considerato allo stesso tempo dal movimento sionista come patria storica del popolo ebraico e dal movimento nazionalista palestinese come territorio appartenente ai suoi abitanti arabi palestinesi. Il conflitto tra ebrei e arabi palestinesi nel mandato britannico della Palestina iniziò negli anni venti del Novecento. La fase principale del conflitto su larga scala tra Israele e gli Stati arabi ebbe luogo dal 1948, anno della proclamazione dello Stato di Israele, al 1973, e fu costituita da una serie di guerre arabo-israeliane: la guerra del 1948, la guerra di Suez del 1956, la guerra dei sei giorni del 1967 e la guerra del Kippur del 1973.
Accordi di pace sono stati firmati tra Israele ed Egitto nel 1979 e tra Israele e Giordania nel 1994, cosicché il conflitto si è tramutato nel corso degli anni da conflitto arabo-israeliano su larga scala a un più localizzato conflitto israelo-palestinese (anche detto questione palestinese), incentrato sul mutuo riconoscimento di sovranità e indipendenza dello Stato di Israele e dello Stato di Palestina, proclamato nel 1988 sui territori palestinesi occupati da Israele nel 1967. Anche il conflitto israelo-palestinese è stato caratterizzato da una serie di guerre tra Israele e organizzazioni palestinesi come l'OLP e Hamas: la guerra del Libano del 1982, la prima e seconda intifada e ripetute guerre nella striscia di Gaza. Nonostante gli accordi di Oslo del 1993, che hanno portato al mutuo riconoscimento tra Israele e OLP e alla creazione dell'Autorità Nazionale Palestinese, ed il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell'ONU nel 2012, un accordo di pace definitivo tra Israele e Palestina non è stato ancora raggiunto, mentre proseguono ad intermittenza sia le ostilità, sia i negoziati di pace.
La zona teatro del conflitto arabo-israeliano fu per molti secoli parte integrante dell'Impero ottomano, che si caratterizzava per una politica tendenzialmente sovranazionale, in grado di garantire una discreta autonomia ai diversi gruppi etnici che lo componevano.
La zona assunse grande valore strategico (sia economico sia militare) a partire dal 1869, anno in cui fu aperto il canale di Suez, grande opera ingegneristica che avvicinava l'Oriente all'Occidente. Oltre a questo, nella prima metà del XX secolo, furono scoperti immensi giacimenti petroliferi in tutta l'area e ciò rese ancora più interessante il territorio vicino-orientale per le potenze europee che, bisognose di quell'elemento per la loro crescente industria, approfittarono dei numerosi segni di fragilità dell'Impero ottomano, nonché dell'esito del primo conflitto mondiale per colonizzare l'intera area, imponendo un'occupazione militare di fatto, atta a garantire lo sfruttamento della zona da parte delle società europee.
Pertanto i popoli arabi che vivevano nella zona, già uniti in parte dalla comune religione islamica, svilupparono una forte identità nazionale (spesso nazionalistica) in risposta all'occupazione straniera.
Identificabile come l'area compresa tra il Mar Mediterraneo ed il Mar Morto, l'Egitto e la Siria, essa ospita tra l'altro l'importantissima città di Gerusalemme, sacra per le tre religioni abramitiche, di cui ospita molti luoghi ed edifici sacri.
Come buona parte del Vicino Oriente, anche la Palestina ha testimoniato l'occupazione britannica - formalmente un mandato della Società delle Nazioni ma, in realtà, frutto degli accordi franco-britannici Sykes-Picot, rivelati dal nuovo governo sovietico all'indomani della Rivoluzione - a causa della sua rilevanza economica e strategica derivante dalla vicinanza con l'Egitto e il canale di Suez nonché con l'area siro-libanese assegnata invece in mandato alla Francia.
Le popolazioni che vivono in tale zona erano da secoli a forte maggioranza araba, ma al termine del XIX secolo e, sempre più consistentemente nei primi anni del XX secolo, fu consentito (dapprima dall'Impero ottomano e poi dalle autorità britanniche) l'insediamento di comunità ebraiche, molte delle quali guadagnate alla causa sionista. A partire dagli anni trenta del XX secolo, e ancor più dopo il termine del secondo conflitto mondiale e la tragedia dell'Olocausto, la Palestina vide fortemente alterata la sua composizione demografica, con la minoranza ebraica cresciuta dall'11,1% del totale nel 1922 al 33% nel 1947,[4] grazie all'acquisto di terreni reso possibile dai fondi concessi ai profughi ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista.
Nel 1948, a seguito di un'apposita risoluzione delle Nazioni Unite, su tali terre fu dichiarato lo Stato di Israele, con un primo esodo arabo-palestinese verso le nazioni limitrofe, fortemente incrementato in seguito alla sconfitta patita nel primo conflitto arabo-israeliano, scatenato l'indomani della dichiarazione d'indipendenza israeliana dagli Stati arabi dell'Egitto, della Siria, del Libano, della Transgiordania e dell'Iraq.
Sul finire del XIX secolo il territorio storico-geografico della Palestina, facente parte dell'Impero ottomano, non costituiva una suddivisione amministrativa ufficiale dell'impero (com'era stato fino all'XI secolo sotto il Califfato abbaside), ma era diviso tra diverse altre suddivisioni amministrative. La macro-regione estesa dal Mar Mediterraneo all'odierno Iraq era nota come Levante o Grande Siria (in arabo, Bilād al-Shām), e la sua porzione meridionale comprendeva il territorio generalmente noto come Palestina. Questo era diviso tra il sangiaccato di Gerusalemme a sud (da Rafah a Giaffa) e la porzione meridionale del vilayet di Beirut a nord (i sangiaccati di Nablus e di Acri). I territori a est del fiume Giordano, talvolta considerati parte della Palestina, erano compresi invece nella porzione meridionale del vilayet di Siria.[5] Già nel 1887, Gerusalemme aveva ottenuto una forma di autonomia dall'Impero ottomano, a dimostrazione della sua politica sovraetnica e sovraculturale.
Intorno alla metà del secolo si era però messo in moto il progetto sionista mirante a stabilire uno stato nazionale ebraico che riunisse le comunità ebraiche sparse nella diaspora, vittime di innumerevoli persecuzioni. Nella visione sionista il progetto mirava a rifondare la nazione ebraica nella "terra promessa", citata dalla Bibbia, dalla quale il popolo degli Israeliti era fuggito, a seguito della distruzione di Gerusalemme da parte dell'Imperatore romano Tito.
Tale progetto venne per la prima volta definito Sionismo nel 1890, dal nome del colle Sion, dove sorgeva la rocca di David, metafora del nuovo stato ebraico. Principale esponente e promotore di tale iniziativa fu Theodor Herzl che, allo scopo di creare un "rifugio" per tutti gli ebrei del mondo, avviò un'intensa attività diplomatica al fine di trovare appoggi finanziari e politici a quell'arduo progetto. Inizialmente come possibile sede di tale Stato fu presa in considerazione anche la vasta e spopolata pampa argentina e, più tardi, il Mau Plateau (attuale Kenya), che però non rispondevano al forte desiderio religioso dell'ebraismo di tornare ad avere una propria nazione: per alcuni, questo luogo doveva necessariamente coincidere con i luoghi santi dell'ebraismo, lasciati ormai da diversi secoli (anche i nazisti, seppur per motivi razziali, pensarono inizialmente a un'operazione di trasferimento in una terra lontana: il Madagascar, così come i sovietici avevano creato la remota oblast' autonoma ebraica del Birobidžan per insediarvi i loro concittadini israeliti).
Nell'ambito di questa volontà, parte del movimento sionista (soprattutto il sionismo cristiano), per giustificare l'esistenza di un futuro Stato ebraico in loco, sovente si rifaceva allo slogan A Land Without People for a People Without Land ("Una terra senza popolo per un popolo senza terra"), frase coniata nella metà del XIX secolo da Lord Anthony Ashley Cooper, settimo Conte di Shaftesbury (politico britannico dell'era vittoriana), che venne però spesso interpretata non nell'accezione originale (secondo cui la Palestina, sotto il dominio ottomano, non aveva nessuna popolazione che mostrasse aspirazioni nazionali specifiche), ma come la negazione della presenza di una significativa popolazione preesistente all'arrivo dei primi coloni ebrei.[6][7][8]
Grazie all'appoggio dei britannici (che vedevano di buon occhio la possibilità di insediamenti nella zona di popolazioni provenienti dall'Europa) e alla grande disponibilità economica di cui godevano alcuni settori delle comunità ebraiche della diaspora, Herzl organizzò il primo convegno sionista mondiale a Basilea nel 1897 e in esso furono poste le basi per la graduale penetrazione ebraica in Palestina, grazie all'acquisto da parte dell'Agenzia ebraica di terreni da assegnare a coloni ebrei originari dell'Europa e della Russia, per poter poi conseguire la necessaria maggioranza demografica e il sostanziale controllo dell'economia che potessero giustificare la rivendicazione del diritto a dar vita a un'entità statale ebraica.
A partire dall'inizio del Novecento la popolazione arabo-palestinese, sentendosi minacciata dalla crescente immigrazione ebraica, dette vita di conseguenza a movimenti nazionalistici che miravano a stroncare sul nascere quella che era considerata una vera e propria minaccia d'origine straniera.
La situazione si protrasse così, tra momenti di tensione e di distensione tra le due fazioni, fino al primo conflitto mondiale e alla conseguente caduta dell'Impero ottomano.
L'Impero ottomano aveva dato segni di stasi culturale e di crescente disfunzione della sua, fino ad allora, efficiente macchina amministrativa e militare fin dal XVIII secolo, in diretta connessione con l'accelerazione dei processi d'industrializzazione in Europa. La crescente potenza economica europea si espresse con una più accentuata volontà di ampliare i propri mercati a livello planetario. Come conseguenza si accrebbe il desiderio di controllare, direttamente o indirettamente, quelle parti del mondo ricche di materie prime che l'industria europea trasformava oltre a creare più ampi mercati in grado di assorbire le sue merci. Il modello ideologico vincente in Europa fu, a partire dai primi del XVIII secolo, il nazionalismo, e per un elementare fenomeno acculturativo, anche l'Impero ottomano pensò di seguire lo stesso tracciato europeo. Gli mancava però la necessaria audacia di avviare un analogo processo di laicizzazione ed il nazionalismo ottomano non riuscì a fare a meno dell'apporto delle classi religiose. La ricerca scientifica rimase eminentemente appannaggio dell'Europa e all'Impero ottomano sembrò sufficiente importare tecnologia da essa senza minimamente immettersi nello stesso cammino ideologico ed epistemologico prefigurato nel Vecchio Continente. Nel XX secolo la situazione ottomana era vistosamente peggiorata e aveva messo in allarme le stesse potenze europee che da tempo parlavano dell'Impero ottomano come del "malato d'Europa". Molti movimenti riformatori erano sorti nei territori ancora controllati dalla "Sublime Porta" per tentare di contrastare il processo di degrado politico, economico e culturale (vedi "Giovani Turchi") ma per alcuni di essi l'intento principale da perseguire era quello, né più né meno, dell'indipendenza di stampo occidentale. Fra questi popoli anche i palestinesi arabi ed ebrei svolsero un ruolo importante. Con l'esplodere della prima guerra mondiale ed il coinvolgimento dell'Impero ottomano, molti furono gli ebrei che decisero di lasciare la loro "Terra promessa" per scegliere mete diverse, innanzi tutto gli Stati Uniti, che garantivano migliori condizioni in termini tanto economici quanto di libertà civili.
Durante la prima guerra mondiale, il Regno Unito prese tre impegni, tra loro contraddittori, rispettivamente con arabi, francesi ed ebrei sionisti, circa il futuro status politico dei territori arabi dell'impero ottomano, e della Palestina in particolare. Per ottenere l'appoggio delle popolazioni arabe contro gli ottomani durante la guerra, nel 1915 il governo britannico, attraverso il ministro plenipotenziario di Sua Maestà Sir Henry MacMahon, alto commissario britannico in Egitto, strinse accordi con lo sharīf della Mecca (poi re dell'Hegiaz) al-Ḥusayn b. ʿAlī: in una corrispondenza con Husayn, McMahon promise che, dopo il crollo dell'Impero ottomano, il Regno Unito avrebbe "riconosciuto e sostenuto l’indipendenza degli arabi in tutte le regioni all’interno dei confini richiesti dallo sceriffo della Mecca", assistendoli "nello stabilire la forma di governo che apparirà più adatta per quei vari territori". Dall’accordo erano però escluse, tra l’altro, "le porzioni di Siria ad ovest dei distretti di Damasco, Homs, Hama ed Aleppo", considerate dai britannici regioni "non puramente arabe" (lettera di McMahon a Husayn del 24 ottobre 1915). Ambiguamente, la Palestina non era esplicitamente menzionata, ed apparentemente giaceva fuori dalle aree escluse dall'accordo, risultando quindi tra le zone in cui il Regno Unito si impegnava a sostenere l'indipendenza degli arabi. In seguito alla fine della guerra, tuttavia, sorsero disaccordi tra i britannici, per cui la Palestina era parte dell'area esclusa dall'accordo, e gli arabi, convinti invece che fosse stata loro promessa l'indipendenza anche della Palestina.[9][10] In base a tali accordi alcuni contingenti arabi, guidati dal figlio dello sharīf, Fayṣal (futuro re dell'Iraq), parteciparono alla cosiddetta "rivolta araba", forti dell'aiuto del Regno Unito che distaccò come suo ufficiale di collegamento (ma di fatto suo plenipotenziario) il colonnello Thomas Edward Lawrence (più noto come Lawrence d'Arabia).
Contemporaneamente, però, il Regno Unito prese accordi con la Francia (con cui, insieme alla Russia, formava l'alleanza nota come Triplice intesa) per la spartizione dei possedimenti dell'Impero ottomano al termine della guerra: nel 1916, con l'accordo Sykes-Picot (inizialmente segreto), Regno Unito e Francia si accordarono per creare "uno Stato arabo indipendente o una confederazione di Stati arabi sotto la sovranità di un capo arabo" in due aree sotto l'influenza francese e britannica rispettivamente (aree A e B della mappa), riservandosi invece aree di controllo diretto lungo la costa mediterranea per la Francia (area blu) e sui vilayet di Basra e di Baghdad per il Regno Unito (area rossa).[11] Per l'area della Palestina a ovest del Giordano da Gaza ad Acri (area marrone) l'accordo prevedeva:
«That in the brown area there shall be established an international administration, the form of which is to be decided upon after consultation with Russia, and subsequently in consultation with the other allies, and the representatives of the sheriff of Mecca. That Great Britain be accorded the ports of Haifa and Acre»
«Che nella zona marrone sarà istituita un'amministrazione internazionale la cui forma dovrà essere decisa dopo essersi consultati con la Russia ed in seguito con gli altri alleati ed i rappresentanti dello sharif della Mecca. Che al Regno Unito siano assegnati i porti di Haifa ed Acri.»
(Accordo Sykes-Picot[12])
Infine, per ottenere l'appoggio del movimento sionista (e degli ebrei russi ed americani in particolare),[13] l'allora ministro degli esteri del Regno Unito Arthur Balfour nel 1917 pubblicò la dichiarazione Balfour, con cui il Regno Unito riconosceva ai sionisti il diritto di formazione di "un focolare nazionale" (a National Home) per il popolo ebraico in Palestina, che venne interpretato dagli stessi come la promessa di un permesso per la costituzione di uno Stato autonomo ed indipendente. Il termine "focolare nazionale", impiegato al posto di un più esplicito "Stato" o "nazione", era tuttavia ambiguo e la dichiarazione specificava anche che non dovevano essere danneggiati "i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche della Palestina". L'interpretazione della Dichiarazione Balfour sarà pertanto, fin dall'inizio, causa di attriti tra la popolazione araba preesistente (che temeva la costituzione di uno stato ebraico) e i sionisti, che la interpretavano invece come un appoggio, da parte del governo britannico, al loro progetto. Gli stessi britannici, alcuni anni dopo, con il libro bianco del 1922,[14] rassicurarono la popolazione araba sul fatto che la Jewish National Home in Palestine promessa nel 1917 non era da intendersi come una nazione ebraica, rimarcando però al contempo l'importanza della comunità ebraica presente e la necessità di una sua ulteriore espansione e del suo riconoscimento internazionale.
Con la fine della guerra e la conferenza di Parigi del 1919, grande fu il dibattito tra le maggiori nazioni vincitrici per decidere il futuro di queste zone, anche alla luce delle direttive del presidente statunitense Woodrow Wilson che condannavano la costituzione di nuove colonie. I rappresentanti dell'Organizzazione Sionista alla conferenza di Parigi avanzarono una proposta riguardante il territorio entro cui speravano potesse concretizzarsi la promessa di Balfour di un focolare nazionale in Palestina: i confini proposti dai sionisti includevano un territorio più ampio di quello poi delimitato dai britannici come Palestina mandataria, esteso da Sidone a nord a Rafah a sud, e fino alla ferrovia dell'Hegiaz, oltre il fiume Giordano, a est.[15] Alla conferenza di Parigi partecipò anche Faysal, in rappresentanza del regno dell'Hegiaz. Su proposta di Faysal, gli Stati Uniti inviarono una commissione di inchiesta (detta commissione King-Crane) in Siria e Palestina per esaminare i desideri degli abitanti: il rapporto della commissione, poi ignorato, concluse che "i sionisti avevano in mente un esproprio praticamente completo degli attuali abitanti non ebrei in Palestina, attraverso diverse forme di acquisto", e che "la popolazione non ebraica della Palestina – circa i nove decimi del totale – è fermamente contraria all’intero programma sionista", e raccomandò quindi "serie modifiche al programma sionista estremo di immigrazione illimitata degli ebrei in Palestina, mirante a fare della Palestina uno Stato ebraico".[16]
Il 3 gennaio 1919 Faysal sottoscrisse un effimero accordo con Chaim Weizmann (presidente dell'Organizzazione Sionista e futuro presidente d'Israele), in base al quale, se i britannici avessero concesso, come promesso, la creazione di un grande Stato arabo indipendente, quest'ultimo avrebbe permesso l'immigrazione ebraica in Palestina. L'accordo dimostrava la possibilità di una collaborazione tra sionisti e nazionalisti arabi, sebbene sia Weizmann, sia Faysal trascurassero i desideri della popolazione araba palestinese, largamente ostile all’immigrazione sionista.[17]
Alla fine, con gli accordi di San Remo dell'aprile 1920, le potenze vincitrici decisero che la Società delle Nazioni avrebbe affidato al Regno Unito ed alla Francia l'amministrazione dei territori arabi dell'Impero ottomano (con l'eccezione dell'Hegiaz) sotto forma di "mandati", già previsti dall'art. 22 della Convenzione della Società delle Nazioni: la Francia ottenne l'amministrazione mandataria di Siria e Libano, mentre il Regno Unito ottenne l'amministrazione mandataria di Palestina, Transgiordania ed Iraq. La promessa britannica del 1915 a Husayn di sostenere l'indipendenza degli arabi andava così infranta: la Francia nel luglio 1920 abbatté militarmente il Regno Arabo di Siria, che un congresso di arabi siriani a Damasco (con la partecipazione di delegati palestinesi) aveva proclamato l'anno prima sul territorio della Grande Siria (comprendente il Libano e la Palestina), riconoscendo come re Faysal (Faysal fu poi "indennizzato" dai britannici nel 1921 con la corona del semi-autonomo Regno dell'Iraq).[18][19]
Nel luglio 1922, la Società delle Nazioni affidò dunque ufficialmente al Regno Unito il mandato britannico della Palestina, un "mandato di classe A" che comprendeva i territori della Palestina e della Transgiordania. La Società delle Nazioni riconosceva gli impegni presi dal ministro Balfour nel 1917, pur rimarcando nuovamente che questi non dovevano essere realizzati a discapito dei diritti civili e religiosi della popolazione non ebraica preesistente. Per permettere l'adempimento degli impegni presi, la Società delle Nazioni ritenne necessario istituire un'agenzia che coordinasse l'immigrazione ebraica e collaborasse con le autorità britanniche per istituire norme atte a facilitare la creazione di questo focolare nazionale, come per esempio la possibilità per gli immigrati ebrei di ottenere facilmente la cittadinanza palestinese; a questo scopo fu creata l'Agenzia ebraica. Oltre a questo il Mandatario dovette predisporre il territorio allo sviluppo di un futuro governo autonomo.[20] Nel 1922, il Regno Unito separò l'amministrazione della Transgiordania da quella della Palestina, limitando l'immigrazione ebraica alla Palestina ad ovest del Giordano, tra le proteste di una parte dei sionisti, in particolare i cosiddetti revisionisti, che avrebbero voluto una patria su entrambe le rive del Giordano. I territori ad est del fiume Giordano (quasi il 73% dell'intera area del mandato) furono organizzati dai britannici in uno stato semi-autonomo avente come re ʿAbd Allāh (figlio di Husayn e fratello di Faysal). Questo territorio divenne la Transgiordania, con una maggioranza di popolazione araba, in gran parte musulmana (nel 1920 circa il 90% della popolazione, stimata in un totale di circa 4.000.000 di abitanti[21]), mentre l'area a ovest del Giordano venne gestita direttamente dal Regno Unito.[22]
Se la reazione delle popolazioni arabe (musulmane e cristiane) a tali progetti fu vivace e del tutto improntata all'ostilità, diverso fu invece l'atteggiamento del movimento sionista che, forte delle precedenti promesse fattegli, considerò il mandato britannico sulla Palestina il primo passo per la futura realizzazione dell'agognato Stato ebraico. Anche se in realtà il Regno Unito era stato in grado di controllare militarmente la zona palestinese fin dal 1917, fu solo nel 1923 che il mandato entrò effettivamente in vigore e fin dall'inizio cominciarono a sorgere nel Paese vari movimenti di resistenza islamica (muqàwwama) che miravano all'allontanamento di tutti quelli che venivano considerati stranieri.
Sotto il mandato britannico l'immigrazione ebraica nella zona subì un'accelerazione mentre l'Agenzia ebraica - che agiva grazie ai finanziamenti provenienti da sostenitori esteri - operò alacremente per l'acquisto di terreni. Il risultato fu quello di portare la popolazione ebraica in Palestina dalle 83.000 unità del 1915, alle 84.000 unità del 1922 (a fronte dei 590.000 musulmani e 71.000 cristiani), alle 175.138 del 1931 (contro i 761.922 musulmani e i quasi 90.000 cristiani), alle 360.000 unità della fine degli anni trenta, quando non era ancora completamente nota alla pubblica opinione internazionale, la dimensione delle misure repressive adottate contro gli ebrei della Polonia ed, in modo assai più marcato, della Germania nazista.
Negli anni venti e trenta numerose furono le dimostrazioni di protesta da parte dei neo nati movimenti palestinesi, che sovente sfociarono in veri e propri scontri a tre tra l'esercito di Sua Maestà britannica, i residenti arabi ed i gruppi armati dei coloni ebrei. Spesso gli attriti non erano dovuti all'immigrazione in sé, ma ai differenti sistemi di assegnazione del terreno: gran parte della popolazione locale per il diritto britannico non possedeva il terreno, ma per le abitudini locali possedeva le piante che vi venivano coltivate sopra (tra cui gli alberi di ulivo, che erano la coltura prioritaria e che, vivendo anche secoli, divenivano dei "beni" passati di generazione in generazione nelle famiglie); di conseguenza, molti terreni usati dai contadini arabi, erano ufficialmente (per la legge britannica) senza proprietario e venivano quindi acquistati (o ricevuti in affidamento) da coloni ebrei appena immigrati che, almeno in un primo tempo, erano ignari di questa situazione.
Questo meccanismo, unito alle regole con cui venivano solitamente gestiti i terreni assegnati ai coloni (la terra doveva essere lavorata solo da lavoratori ebrei e non poteva essere ceduta o subaffittata a non ebrei), di fatto toglieva l'unica fonte di sostentamento e lavoro a moltissimi insediamenti arabi preesistenti.[23]
Il 14 agosto del 1929 alcuni gruppi di sionisti (per un totale di diverse centinaia di persone, quasi tutte facenti parte del gruppo sionista Betar di Vladimir Žabotinskij) marciarono sul Muro del pianto di Gerusalemme (luogo sacro per entrambe le religioni e che già negli anni precedenti era stato motivo di scontro), rivendicando a nome dei coloni ebrei l'esclusiva proprietà della Città Santa e dei suoi luoghi sacri. Il gruppo era scortato dalle forze dell'ordine, avvisate in anticipo, con lo scopo di evitare disordini; ciononostante, cominciarono a circolare voci su scontri in cui i sionisti avrebbero picchiato i residenti arabi della zona e offeso Maometto.
Come risposta il Consiglio Supremo Islamico organizzò una contro-marcia ed i partecipanti al corteo, una volta arrivati al Muro, bruciarono le pagine di alcuni libri di preghiere ebraiche. Nella settimana gli scontri continuarono ed, infiammati dalla morte di un colono ebreo e dalle voci (poi rivelatesi false) sulla morte di due arabi per mano di alcuni ebrei, si ampliarono fino a comprendere tutta la Palestina.
Il 20 agosto l'Haganah offrì la propria protezione alla popolazione ebraica di Hebron (circa 600 persone su un totale di 17.000), che la rifiutò contando sui buoni rapporti che si erano instaurati con la popolazione islamica e i suoi rappresentanti. Il 24 agosto gli scontri raggiunsero la città dove furono uccisi circa 70 ebrei, altri 58 furono feriti, alcune decine fuggirono dalla città, mentre 435[24] trovarono rifugio nelle case dei loro vicini arabi per poi fuggire dalla città nei giorni successivi agli scontri.
Alcune famiglie torneranno a Hebron due anni dopo, per poi lasciarla definitivamente nel 1936, evacuate dalle forze britanniche. Alla fine degli scontri ci furono, sul territorio della Palestina, tra gli ebrei 133 morti e 339 feriti (quasi tutti relativi a scontri con la popolazione araba, circa 70 solo a Hebron), mentre tra gli arabi ci furono 116 morti e 232 feriti (per la maggioranza dovuti a scontri con le forze britanniche).
Una commissione britannica presieduta da Sir Walter Russell Shaw giudicò e condannò i sospettati di stragi e rappresaglie (195 arabi e 34 ebrei) ed emise diverse condanne a morte (17 arabi e due ebrei, commutate con la prigione a vita tranne per tre arabi che furono impiccati), negò ogni accusa di scarsa efficacia di intervento da parte delle forze britanniche, condannò fermamente gli attacchi iniziali della popolazione araba contro i coloni ebraici e le loro proprietà, giustificò le rappresaglie da parte dei coloni ebrei contro gli insediamenti arabi come una "legittima difesa" dagli attacchi subiti e vide nel timore di uno Stato ebraico il motivo di questi attacchi.
Oltre a questo la commissione raccomandò al governo di riconsiderare le proprie politiche sull'immigrazione ebraica e sulla vendita di terra ai coloni ebrei, raccomandazione che portò alla creazione di una commissione reale guidata da Sir John Hope Simpson l'anno successivo.
Nel 1936, uno sciopero generale di sei mesi indetto dal Comitato supremo arabo, che chiedeva la fine del mandato e dell'immigrazione ebraica, diede il via alla Grande rivolta araba. Al termine di questa, verso la fine degli anni trenta, e dopo alcuni tentativi falliti di proporre la divisione della Palestina in due stati (in tutte le proposte Gerusalemme e la regione limitrofa sarebbero comunque rimasti sotto il controllo britannico), sollecitata dalla commissione Peel, il Regno Unito cambiò opinione verso il sostegno al movimento sionista, che iniziava a mostrare anche aspetti inquietanti e violenti, e cominciò a negare al sionismo quell'appoggio politico che fin lì aveva garantito, producendo il "libro bianco" nel 1939,[25] che poneva dei limiti all'immigrazione ebraica, alla vendita di terreni ai nuovi coloni e ipotizzava la creazione di un unico Stato di etnia mista araba-ebraica entro 10 anni (dove gli arabi sarebbero stati giocoforza maggioranza). Ciò indusse pertanto gli ebrei di Palestina a cercare negli Stati Uniti quello che fino ad allora aveva concesso loro l'Impero britannico.
La decisione in realtà fu più che altro formale, visto che l'ingresso clandestino di coloni aumentò sensibilmente anche a causa delle persecuzioni che gli ebrei avevano cominciato a subire da parte della Germania nazista fin dal 1933.
Intanto, se da un lato alcuni palestinesi si erano affidati agli atti terroristici come estrema forma di lotta contro una presenza che veniva considerata quella di un occupante straniero, un ricorso più sistematico al terrorismo fu perseguito dalle organizzazioni militanti sioniste che organizzarono gruppi militari, come l'Haganah ed il Palmach, e paramilitari, quali la "Banda Stern" e l'Irgun; quest'ultima organizzazione perpetrò una serie di attacchi nei confronti sia degli arabi sia dei militari e dei diplomatici britannici, causando diverse centinaia di morti tra la popolazione.
Con la seconda guerra mondiale le organizzazioni ebraiche (con l'esclusione del gruppo della Banda Stern) si schierarono con gli Alleati, mentre molti gruppi arabi guardarono con interesse l'Asse, nella speranza che una sua vittoria servisse a liberarli dalla presenza britannica. In particolare, Amin al-Ḥusaynī, Gran muftì di Gerusalemme, non esitò a cercare il sostegno della Germania nazista e dell'Italia fascista, collaborando in seguito attivamente con la prima durante la seconda guerra mondiale, facilitando ad esempio il reclutamento di musulmani nelle formazioni internazionali delle Waffen-SS ed in quelle del Regio Esercito italiano.
L'esito del conflitto non valse perciò a modificare la situazione di stallo che sfavoriva la popolazione araba, ancora maggioritaria.
L'ONU dovette quindi affrontare la situazione che dopo trent'anni di controllo britannico era diventata pressoché ingestibile, visto che oramai la popolazione ebraica costituiva un terzo dei residenti in Palestina, anche se possedeva solo una minima parte del territorio[26] (circa il 7% del territorio, contro il 50% della popolazione araba e il restante in mano al governo britannico della Palestina).
Nel 1947 il Regno Unito, provato dalla guerra mondiale e da una serie di attentati, tra cui l'attentato sionista all'Hotel King David di Gerusalemme (organizzato dai futuri primi ministri israeliani Menachem Begin e David Ben Gurion, anche se quest'ultimo cambiò idea prima che l'attentato fosse compiuto temendo troppe vittime tra i civili) e quello all'ambasciata britannica a Roma, decise di rimettere il mandato palestinese nelle mani delle Nazioni Unite, cui venne affidato il compito di risolvere l'intricata situazione.[27]
Il 15 maggio 1947 fu fondato quindi l'UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine), comprendente 11 nazioni (Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Paesi Bassi, Peru, Svezia, Uruguay, India, Iran, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, Australia) da cui erano escluse le nazioni "maggiori", per permettere una maggiore neutralità.[28]
Sette di queste nazioni (Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Uruguay) votarono a favore di una soluzione con due Stati divisi e Gerusalemme sotto controllo internazionale, tre per un unico Stato federale (India, Iran, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia), ed una si astenne (Australia).
Il problema chiave che l'ONU si pose in quel periodo fu se i rifugiati europei scampati alle persecuzioni naziste dovessero essere ricollegati, in qualche modo, alla situazione in Palestina.
Nella sua relazione l'UNSCOP si pose il problema di come accontentare entrambe le fazioni, giungendo alla conclusione che era "manifestamente impossibile", ma che era anche "indifendibile" accettare di appoggiare solo una delle due posizioni:
«But the Committee also realized that the crux of the Palestine problem is to be found in the fact that two sizeable groups, an Arab population of over 1,200,000 and a Jewish population of over 600,000, with intense nationalist aspirations, are diffused throughout a country that is arid, limited in area, and poor in all essential resources. It was relatively easy to conclude, therefore, that since both groups steadfastly maintain their claims, it is manifestly impossible, in the circumstances, to satisfy fully the claims of both groups, while it is indefensible to accept the full claims of one at the expense of the other.»
«Ma la Commissione [sulla Palestina] ha anche capito che il punto cruciale della questione palestinese deve essere individuato nel fatto che due considerevoli gruppi, una popolazione araba con oltre 1.200.000 abitanti ed una popolazione ebraica con oltre 600.000 abitanti con un'intensa aspirazione nazionale, sono sparsi in un territorio che è arido, limitato, e povero di tutte le risorse essenziali. È stato pertanto relativamente facile concludere che finché entrambi i gruppi manterranno costanti le loro richieste è manifestamente impossibile in queste circostanze soddisfare interamente le richieste di entrambi i gruppi, mentre è indifendibile una scelta che accettasse la totalità delle richieste di un gruppo a spese dell'altro.»
(United Nations Special Committee on Palestine, Recommendations to the General Assembly, A/364, 3 September 1947[29])
L'UNSCOP raccomandò anche che il Regno Unito cessasse il prima possibile il suo controllo sulla zona, sia per cercare di ridurre gli scontri tra la popolazione di entrambe le etnie, sia per cercare di porre fine agli attriti presenti tra le comunità ebraiche e il governo mandatario.[29]
La definitiva risposta delle Nazioni Unite alla questione palestinese fu data il 25 novembre 1947 con l'approvazione della risoluzione 181, che raccomandava la spartizione del territorio conteso tra uno Stato palestinese, uno ebraico e una terza zona, che comprendeva Gerusalemme, amministrata direttamente dall'ONU.[30]
Nel decidere su come spartire il territorio, l'UNSCOP considerò, per evitare possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebraici erano presenti in numero significativo (seppur spesso in minoranza[31]) nel futuro territorio ebraico, a cui venivano aggiunte diverse zone disabitate (per la maggior parte desertiche) in previsione di una massiccia immigrazione dall'Europa, una volta abolite le limitazioni imposte dal governo britannico nel 1939, per un totale del 56% del territorio.[32]
La situazione sarebbe dunque stata[33]
Territorio | Popolazione araba | % Arabi | Popolazione ebraica | % Ebrei | Popolazione Totale | |
---|---|---|---|---|---|---|
Stato arabo | 725.000 | 99% | 10.000 | 1% | 735.000 | |
Stato ebraico | 407.000 | 45% | 498.000 | 55% | 905.000 | |
Zona Internazionale | 105.000 | 51% | 100.000 | 49% | 205.000 | |
Totale | 1.237.000 | 67% | 608.000 | 33% | 1.845.000 | |
Fonte: Report of UNSCOP - 1947. |
(oltre a questo era presente una popolazione Beduina di 90.000 persone nel territorio ebraico).
Le reazioni alla risoluzione dell'ONU furono diversificate: la maggior parte dei gruppi ebraici (l'Agenzia ebraica per esempio) l'accettò, pur lamentando la non continuità territoriale tra le varie aree assegnate allo Stato ebraico. Gruppi più estremisti, come l'Irgun e la Banda Stern, la rifiutarono, essendo contrari alla presenza di uno Stato arabo in quella che era considerata "la Grande Israele" ed al controllo internazionale di Gerusalemme.
Tra i gruppi arabi la proposta fu rifiutata, ma con diverse motivazioni: alcuni negavano totalmente la possibilità della creazione di uno Stato ebraico, altri criticavano la spartizione del territorio che ritenevano avrebbe isolato i territori assegnati alla popolazione araba (oltre al fatto che lo Stato arabo non avrebbe avuto sbocchi sul Mar Rosso e sul Mar di Galilea, quest'ultimo la principale risorsa idrica della zona), altri ancora erano contrari per via del fatto che a quella che per ora era una minoranza ebraica (un terzo della popolazione totale) fosse assegnata la maggioranza del territorio.
Il Regno Unito si astenne nella votazione e rifiutò apertamente di seguire le raccomandazioni del piano, che riteneva si sarebbe rivelato inaccettabile per entrambe le parti, ed annunciò che avrebbe terminato il proprio mandato il 14 maggio 1948.
Il 29 novembre 1947 venne votata la risoluzione; a favore votarono 33 nazioni (Australia, Belgio, Bolivia, Brasile, Bielorussia, Canada, Costa Rica, Cecoslovacchia, Danimarca, Repubblica Domenicana, Ecuador, Francia, Guatemala, Haiti, Islanda, Liberia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Nicaragua, Norvegia, Panama, Paraguay, Perù, Filippine, Polonia, Svezia, Sudafrica, Ucraina, USA, URSS, Uruguay, Venezuela), contro 13 (Afghanistan, Cuba, Egitto, Grecia, India, Iran, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Siria, Turchia, Yemen), vi furono 10 astenuti (Argentina, Cile, Cina, Colombia, El Salvador, Etiopia, Honduras, Messico, Regno Unito, Jugoslavia) e un assente alla votazione (Thailandia).[34]
Le nazioni arabe fecero ricorso alla Corte internazionale di giustizia, sostenendo la non competenza dell'assemblea delle Nazioni Unite nel decidere la ripartizione di un territorio andando contro la volontà della maggioranza dei suoi residenti, ma il ricorso fu respinto.
La decisione delle Nazioni Unite fu seguita da un'ondata di violenze senza precedenti da parte dei gruppi militari e paramilitari, sionisti (Haganah, Palmach, Irgun e Banda Stern) e arabi, che precipitò nel caos la Palestina nel 1948, in questo aiutati dalla propaganda bellicosa di segno contrario di leader politico-religiosi quali il gran mufti di Gerusalemme Hajji Amin al-Husayni. Nel medesimo anno Londra ritirò - forse prematuramente - le proprie truppe, lasciando così il Paese in balia del caos e dei gruppi paramilitari. Le organizzazioni combattenti israeliane (che miravano a conquistare il maggior territorio possibile per il proprio Stato, inducendo alla fuga ed espellendo i residenti arabi) e le forze arabe (che miravano a conquistare la totalità del territorio assegnato all'etnia ebraica, di fatto espellendola e bloccando ogni futura immigrazione) si scontrarono così col massimo della violenza e dell'odio reciproco, il tutto ai danni dell'indifesa popolazione rurale e urbana palestinese di entrambe le etnie.[35]
Tra il 14 ed il 15 maggio 1948, contemporaneamente al ritiro degli ultimi soldati britannici, David Ben Gurion, capo del governo ombra sionista, proclamò l'indipendenza dello "Stato ebraico in terra di Israele", affermando nella dichiarazione di indipendenza di lanciare un appello ... agli abitanti arabi dello Stato di Israele volto a preservare la pace ed a partecipare alla costruzione dello Stato sulla base di piena e indistinta cittadinanza e legale rappresentanza in tutte le istanze, temporanee e permanenti. ... Lo Stato di Israele è pronto a fare la propria parte in uno sforzo comune per il progresso dell'intero Medio Oriente.[36]