Giovanni Boccaccio
scrittore e poeta italiano (1313-1375) / Da Wikipedia, l'enciclopedia encyclopedia
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Giovanni Boccaccio (Certaldo o forse Firenze, giugno o luglio 1313[1] – Certaldo, 21 dicembre 1375[2][3][4]) è stato uno scrittore e poeta italiano.
«Umana cosa è aver compassione degli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto, li quali già hanno di conforto avuto mestiere, et hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli.»
(Giovanni Boccaccio, Decameron, Proemio)
Conosciuto anche come "il Certaldese"[5], fu una delle figure più importanti nel panorama letterario europeo del XIV secolo[6]. Alcuni studiosi[7] (tra i quali Vittore Branca) lo definiscono come il maggior prosatore europeo del suo tempo, uno scrittore versatile che amalgamò tendenze e generi letterari diversi facendoli confluire in opere originali, grazie a un'attività creativa esercitata all'insegna dello sperimentalismo.
La sua opera più celebre è il Decameron, raccolta di novelle che nei secoli successivi fu elemento determinante per la tradizione letteraria italiana, soprattutto dopo che nel XVI secolo Pietro Bembo elevò lo stile boccacciano a modello della prosa italiana[8]. L'influenza delle opere di Boccaccio non si limitò al panorama culturale italiano ma si estese al resto dell'Europa[9], esercitando influsso su autori come Geoffrey Chaucer, figura chiave della letteratura inglese, o più tardi su Miguel de Cervantes, Lope de Vega e il teatro classico spagnolo[10].
Boccaccio, insieme a Dante Alighieri e Francesco Petrarca, fa parte delle cosiddette «Tre corone» della letteratura italiana. È inoltre ricordato per essere uno dei precursori dell'umanesimo[11], del quale contribuì a gettare le basi presso la città di Firenze, in concomitanza con l'attività del suo contemporaneo amico e maestro Petrarca. Fu anche colui che diede inizio alla critica e filologia dantesca, dedicandosi a ricopiare codici della Divina Commedia[N 1] e fu anche un promotore dell'opera e della figura di Dante.
Nel Novecento Boccaccio fu oggetto di studi critico-filologici da parte di Vittore Branca e Giuseppe Billanovich e il suo Decameron fu anche trasposto sul grande schermo dal regista e scrittore Pier Paolo Pasolini.
L'infanzia fiorentina (1313-1327)
Giovanni Boccaccio nacque tra il giugno e il luglio del 1313 da una relazione extraconiugale[12] del mercante Boccaccino di Chellino con una donna di umilissima famiglia di Certaldo, presso Firenze[13][14]. Non si conosce quale sia stato esattamente il luogo in cui è nato, se Firenze o Certaldo: Vittore Branca sostiene che, quando Boccaccio si firma "Johannes de Certaldo", ciò indichi che Certaldo sia la patria della famiglia, ma non il luogo fisico di nascita[14][15]. Il fatto di essere un figlio illegittimo dovette pesare notevolmente sulla psiche del Boccaccio, in quanto nelle opere in volgare costruì una sorta di biografia mitica, idealizzata, facendo credere di essere figlio di una donna membro della famiglia dei Capetingi e prendendo in tal modo spunto dai viaggi mercantili che il padre compiva a Parigi[16][17][18]. Riconosciuto in tenera età dal padre, Giovanni fu accolto, verso il 1320[19], nella casa paterna sita nel quartiere di San Piero Maggiore[16]. Grazie ai buoni uffici del padre compì i primi studi presso la scuoletta di Giovanni Mazzuoli da Strada, padre di Zanobi[16][20]. Durante la giovinezza, Boccaccio imparò quindi i primi rudimenti del latino e delle arti liberali, oltre ad apprendere la Divina Commedia di Dante Alighieri, in quanto il padre si era sposato con la nobildonna Margherita de' Mardoli, imparentata con la famiglia Portinari[21].
L'adolescenza napoletana (1327-1340)
Un ambiente cosmopolita: la formazione da autodidatta
Boccaccino desiderava che il figlio si avviasse alla professione di mercante, secondo la tradizione di famiglia. Dopo avergli fatto fare un breve tirocinio a Firenze, nel 1327 decise di portare con sé il giovane figlio a Napoli[1], città dove egli svolgeva il ruolo di agente di cambio per la famiglia dei Bardi[22]. Boccaccio arriva quattordicenne in una realtà totalmente diversa da quella di Firenze: se Firenze era una città comunale fortemente provinciale, Napoli era invece sede di una corte regale e cosmopolita, quella degli Angiò. Il re Roberto d'Angiò (1277-1343) era un sovrano estremamente colto e pio, un appassionato della cultura tanto da avere una notevole biblioteca[23], gestita dall'erudito Paolo da Perugia.
Il padre Boccaccino vide ben presto, con suo grande disappunto, che quel suo figliolo non si trovava a suo agio negli uffici dei cambiavalute e di come preferisse dedicarsi agli studi letterari[1]. Pertanto, dopo aver cercato di distoglierlo da questi interessi del tutto estranei alla mercatura, iscrisse il figlio a giurisprudenza all'Università di Napoli. Boccaccio vi seguì per un anno accademico (1330-31) le lezioni del poeta e giurista Cino da Pistoia, ma, anziché studiare con lui il diritto, preferì accostarsi alle lezioni poetiche che il pistoiese impartiva al di fuori dell'ambiente accademico[24]. Boccaccio approfondì la grande tradizione stilnovistica in lingua volgare di cui Cino da Pistoia, che aveva intrattenuto amichevoli rapporti con l'amato Dante[25], era uno degli ultimi esponenti.
Inoltre, Giovanni incominciò a frequentare la corte angioina (dove conobbe, oltre a Paolo da Perugia, anche Andalò del Negro[26]) e a occuparsi di letteratura: scrisse sia in latino, sia in volgare, componendo opere come il Teseida, il Filocolo, il Filostrato e la Caccia di Diana. Un elemento inusitato per l'educazione tipica dell'epoca è l'apprendimento di alcune nozioni grammaticali e lessicali del greco da parte del monaco e teologo bizantino Barlaam di Seminara, giunto nell'Italia meridionale in ambasceria per conto dell'imperatore bizantino[27].
La giovinezza napoletana non si esaurisce, però, soltanto nella frequentazione degli ambienti accademici e di corte: le fiabe e le avventure dei mercanti che Boccaccio sente mentre presta servizio al banco commerciale saranno fondamentali per il grande affresco narrativo che prenderà vita col Decameron[28].
Fiammetta
A questo punto il poeta, divenuto un autodidatta colto ed entusiasta, crea il proprio mito letterario, secondo i dettami della tradizione stilnovistica: Fiammetta, forse tale Maria d'Aquino, figlia illegittima di Roberto D'Angiò[29][N 2]. Il periodo napoletano si conclude improvvisamente nel 1340, quando il padre lo richiama a Firenze per un forte problema economico dovuto al fallimento di alcune banche nelle quali aveva fatto importanti investimenti[30].
L'inizio del secondo periodo fiorentino (1340-1350)
Il ritorno malinconico a Firenze
L'orizzonte di Boccaccio, col ritorno a Firenze agli inizi degli anni quaranta, cambia totalmente dal punto di vista economico e sociale; insofferente verso la vita troppo ristretta e provinciale di Firenze, cercherà per tutta la vita di ritornare nell'amata Napoli, iniziando già nel 1341 con la stesura dell'Epistola V indirizzata al vecchio amico Niccolò Acciaioli, ormai divenuto connestabile del Regno di Napoli[31][32]. Nonostante quest'insofferenza emotiva per l'abbandono della città partenopea, Boccaccio seppe nel contempo percepire quell'affettività "materna" nei confronti della sua città natale, tipica della cultura medievale, cercando di accattivarsi l'animo dei suoi concittadini attraverso la realizzazione della Commedia delle Ninfe fiorentine e del Ninfale fiesolano. Nonostante i successi letterari, la situazione economica di Boccaccio non diede segni di miglioramento, costringendo il giovane letterato ad allontanarsi da Firenze nel tentativo di ottenere una posizione in qualche corte romagnola.
L'intermezzo ravennate (1345-1346) e forlivese (1347-1348)
Tra il 1345 e il 1346 Boccaccio risiedette a Ravenna alla corte di Ostasio da Polenta[33], presso il quale tentò di ottenere qualche incarico remunerativo e dove portò a compimento la volgarizzazione della terza e della quarta decade dell'Ab Urbe Condita di Tito Livio[34], dedicando l'impresa letteraria al signore ravennate[35].
Fallito questo proposito, nel 1347 Boccaccio si trasferì a Forlì alla corte di Francesco II Ordelaffi detto il Grande[33]. Qui frequentò i poeti Nereo Morandi e Checco Miletto de Rossi, col quale mantenne poi amichevole corrispondenza sia in latino sia in volgare[36]. Tra i testi di questo periodo si deve citare l'egloga Faunus, in cui Boccaccio rievoca il passaggio a Forlì di Luigi I d'Ungheria (Titiro, nell'egloga) diretto verso Napoli, a cui si unisce Francesco Ordelaffi (Fauno). Il componimento viene poi incluso dal Boccaccio nella raccolta Buccolicum Carmen (1349-1367)[37].
La peste nera e la stesura del Decameron
Nonostante questi soggiorni Boccaccio non riuscì a ottenere i posti desiderati, tanto che tra la fine del 1347 e il 1348 fu costretto a ritornare a Firenze. Il ritorno del Certaldese coincise con la terribile "peste nera" che contagiò la stragrande maggioranza della popolazione, causando la morte di molti suoi amici e parenti, tra cui il padre e la matrigna[38]. Fu durante la terribile pestilenza che Boccaccio elaborò l'opera che sarà la base narrativa della novellistica occidentale, cioè il Decameron, che completò probabilmente nel 1351[39].
Boccaccio e Petrarca
L'ammirazione per Petrarca
Boccaccio sentì parlare di Petrarca già durante il soggiorno napoletano: grazie a padre Dionigi da Borgo Sansepolcro (arrivato a Napoli nel 1338)[40] e, forse, a Cino da Pistoia, Boccaccio ebbe notizia di questo giovane prodigioso residente ad Avignone. Ritornato a Firenze, la conoscenza con Sennuccio del Bene e altri vari ammiratori fiorentini (i protoumanisti Lapo da Castiglionchio, Francesco Nelli, Bruno Casini, Zanobi da Strada e Mainardo Accursio)[1] contribuì nell'animo del Certaldese a rinsaldare quella che inizialmente era una curiosa attenzione, fino a farla diventare una passione viscerale nei confronti di quest'uomo che, pudico, austero e grande poeta, avrebbe potuto risollevare il Boccaccio dallo stato di decadenza morale in cui versava.
In questo decennio Boccaccio realizzò alcune composizioni celebrative di Petrarca: la Mavortis Milex del 1339, elogio nei confronti della persona di Petrarca, capace di salvarlo dalla sua degradazione morale[41][42]; il Notamentum, scritto dopo il 1341 col fine di celebrare Petrarca come il primo poeta laureato a Roma dopo Stazio, come Virgilio redivivo, come filosofo morale alla pari di Cicerone e di Seneca[43]; e infine la De vita et moribus domini Francisci Petracchi, scritta prima del 1350 e ricalcante l'esaltazione del Notamentum[42], un vero e proprio tentativo di «canonizzazione»[44] dell'Aretino. Grazie alla frequentazione degli amici fiorentini del Petrarca, Boccaccio poté raccogliere nella sua “antologia petrarchesca”[45] i carmi che quest'ultimo scambiava con i suoi discepoli, cercando così di appropriarsi della cultura che tanto ammirava.
L'incontro con Petrarca nel 1350
L'incontro di persona con il grande poeta laureato avvenne quando egli, in occasione del Giubileo del 1350, si accinse a lasciare Valchiusa, dove si era rifugiato a causa della grande peste, per andare a Roma[42]. Lungo il tragitto Petrarca, d'accordo con il circolo degli amici fiorentini, decise di fermarsi per tre giorni a Firenze a leggere e spiegare le sue opere. Fu un momento di straordinaria intensità: Lapo da Castiglionchio donò a Petrarca la Institutio oratoria di Quintiliano, mentre Petrarca in seguito invierà loro la Pro Archia, scoperta anni prima nella biblioteca capitolare di Liegi[N 3].
La conversione all'umanesimo (1350-1355)
Dal 1350 in avanti nasce un rapporto profondo tra Boccaccio e Petrarca, che si concretizzerà negli incontri degli anni successivi, durante i quali avvenne gradualmente, secondo un termine coniato dal filologo spagnolo Francisco Rico[46], la "conversione" del Boccaccio al nascente umanesimo. Fin dalla sua prima giovinezza a Napoli, Boccaccio era entrato in contatto con ricche biblioteche[47], tra le quali spiccava sicuramente quella del monastero di Montecassino, ove erano custoditi numerosissimi codici di autori pressoché sconosciuti nel resto dell'Europa occidentale: tra questi, Apuleio[N 4], Ovidio, Marziale e Varrone[48]. Prima dell'incontro con Petrarca Boccaccio continuava a vedere i classici nell'ottica della salvezza cristiana, deformati rispetto al loro messaggio originario ed estraniati dal contesto in cui furono composti[49]. I vari incontri con il poeta laureato, mantenuti costanti attraverso una fitta corrispondenza epistolare e l'assidua frequentazione degli altri protoumanisti, permisero a Boccaccio di sorpassare la mentalità medievale e di abbracciare il nascente umanesimo.
Nel giro di un quinquennio Boccaccio poté avvicinarsi alla mentalità di colui che diverrà il suo praeceptor, constatando l'indifferenza che questi nutriva per Dante[N 5] e l'ostentato spirito cosmopolita che spinse il poeta aretino a rifiutare l'invito del Comune di Firenze di assumere il ruolo di docente nel neonato Studium e ad accettare invece, nel 1353, l'invito di Giovanni II Visconti, acerrimo nemico dei fiorentini[50][N 6]. Superata la crisi dei rapporti per il voltafaccia di Petrarca, Boccaccio riprese le fila delle relazioni culturali tra lui e il circolo degli amici fiorentini, arrivando alla maturazione della mentalità umanista quando nel 1355, donò all'amico due preziosissimi codici: uno delle Enarrationes in Psalmos di sant'Agostino[51], cui seguì poco dopo quello contenente il De Lingua Latina dell'erudito romano Varrone e l'intera Pro Cluentio di Cicerone[52].
Gli anni dell'impegno (1350-1365)
Tra incarichi pubblici e problemi privati
Mentre Boccaccio consolidava l'amicizia con Petrarca, il primo cominciò a essere impiegato per varie ambasciate diplomatiche dalla Signoria, ben conscia delle qualità retoriche del Certaldese. Già tra l'agosto e il settembre del 1350[1], per esempio, Boccaccio fu inviato a Ravenna per portare a Suor Beatrice, la figlia di Dante, 10 fiorini d'oro a nome dei capitani della compagnia di Orsanmichele[53][54], durante la quale ambasceria avrà probabilmente raccolto informazioni riguardanti l'amato poeta[55] e avrà fatto la conoscenza dell'amico del Petrarca, il retore Donato Albanzani[56].
Nel 1351, la Signoria incaricò sempre Boccaccio di una triplice missione: convincere Petrarca, che nel frattempo si trovava a Padova, a stabilirsi a Firenze per insegnare nel neonato Studium (i colloqui tra i due si svolsero a marzo)[57]; stipulare con Ludovico di Baviera, marchese del Brandeburgo, un'alleanza contro le mire espansionistiche di Giovanni Visconti (dicembre 1351-gennaio 1352)[58]; e infine, dopo essere stato nominato uno dei Camerlenghi della Repubblica, quella di convincere Giovanna I di Napoli a lasciare Prato sotto la giurisdizione fiorentina[59].
Nonostante il fallimento delle trattative con Petrarca, la Signoria rinnovò al Boccaccio la propria fiducia, inviandolo ad Avignone presso Innocenzo VI (maggio-giugno 1354)[1] e, nel 1359, a Milano presso il nuovo signore Bernabò Visconti[1], città in cui Boccaccio si fermò per visitare Petrarca, la cui casa si trovava vicino a Sant'Ambrogio[60]. Questo decennio di intensa attività politica fu contrassegnato, però, anche da alcune dolorose vicende personali: nel 1355 morì la figlioletta naturale Violante[61] (Boccaccio, in una data imprecisata, venne ordinato prete, come è testimoniato in un beneficio del 1360[62]); sempre nel medesimo anno, lo scrittore provò amarezza e rancore nel non essere stato aiutato dall'influente amico Niccolò Acciaiuoli nell'ottenere un posto alla corte di Giovanna di Napoli[N 7]. Il 1355 vide però anche un piccolo successo finanziario da parte del Certaldese, in quanto alcuni commerci da lui intrapresi con la città di Alghero gli fruttarono quelle risorse delle quali dimostrerà di poter disporre negli anni successivi, caratterizzati da varie difficoltà economiche[63].
La momentanea caduta in disgrazia
L'anno 1360 segnò una svolta nella vita sociale del Boccaccio. In quell'anno, infatti, durante le elezioni dei priori della Signoria fu scoperta una congiura alla quale parteciparono persone vicine allo stesso Boccaccio[64]. Benché fosse estraneo al tentato colpo di Stato, Boccaccio fu malvisto da parte delle autorità politiche fiorentine, tanto che fino al 1365 non partecipò a missioni diplomatiche o a incarichi politici[N 8].
Boccaccio umanista e Leonzio Pilato
Nel corso degli anni cinquanta, mentre avanzava nella conoscenza della nuova metodologia umanistica, Boccaccio si accinse a scrivere cinque opere in lingua latina, frutto del continuo studio sui codici dei classici. Tre di queste hanno un carattere erudito (la Genealogia deorum gentilium, il De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis e il De montibus), mentre le restanti (il De Casibus e il De mulieribus claris) hanno un sapore divulgativo. Uno dei più grandi meriti del Boccaccio per la diffusione della cultura umanistica fu l'interesse dimostrato nei confronti del monaco calabrese Leonzio Pilato, erudito conoscitore del greco di cui Petrarca parlò all'amico fiorentino[66]. Ottenuto da parte della Signoria fiorentina[67] che Pilato venisse accolto nello Studium come insegnante di greco, Boccaccio ospitò a sue spese il monaco tra l'agosto 1360 e l'autunno 1362[68][69]. La convivenza non dovette essere molto semplice a causa del pessimo carattere del Pilato[70], ma al contempo si rivelò proficua per l'apprendimento del greco da parte del Certaldese. A Firenze Pilato tradusse i primi cinque libri dell'Iliade e l'Odissea (oltre a commentare Aristotele ed Euripide[68]) e realizzò due codici di entrambe le opere, che Boccaccio inviò al Petrarca (1365)[71].
Il periodo fiorentino-certaldese (1363-1375)
Il periodo che va dal 1363 all'anno della morte (1375) viene denominato «periodo fiorentino-certaldese»: infatti, l'autore del Decameron comincerà sempre più a risiedere a Certaldo, nonostante i maggiorenti fiorentini avessero deciso di reintegrarlo nei pubblici uffici, inviandolo come in passato in missioni diplomatiche[72].
A partire dal 1363, infatti, Boccaccio risiedette per più di dieci mesi nella cittadina toscana, dalla quale sempre più raramente si mosse anche a causa della salute declinante (negli ultimi anni fu afflitto dalla gotta, dalla scabbia e dall'idropisia[73]). Gli unici viaggi che avrebbe compiuto sarebbero stati per rivedere il Petrarca, alcune missioni diplomatiche per conto di Firenze, oppure per ritentare la fortuna presso l'amata Napoli. Oltre alla decadenza fisica, si aggiunse anche uno stato di abbattimento psicologico: nel 1362 il monaco certosino (e poi beato) Pietro Petroni[74] rimproverò lui e Petrarca di dedicarsi ai piaceri mondani quali la letteratura[75], critica che toccò nel profondo l'animo di Boccaccio, tanto che questi pensò addirittura di bruciare i propri libri[76] e rinunziare agli studi, vendendo al Petrarca la propria biblioteca[77][78].
La riabilitazione pubblica
Nel 1365, infatti, Boccaccio venne messo a capo di una missione diplomatica presso la corte papale di Avignone. In quella città il Certaldese doveva ribadire la lealtà dei fiorentini al papa Urbano V contro le ingerenze dell'imperatore Carlo IV di Lussemburgo[79]. Nel 1367 Boccaccio andò a Roma per congratularsi del ritorno del papa nella sua sede diocesana[80].
Il circolo di Santo Spirito e l'autorità di Boccaccio
Gli anni successivi videro sempre più un rallentamento dei viaggi del Boccaccio: nel 1368 incontrò per l'ultima volta l'amico Petrarca, ormai stabile ad Arquà[80]; tra il 1370 e il 1371 fu a Napoli[80], città in cui decise sorprendentemente di non fermarsi più a risiedere per l'età avanzata e la salute sempre più malandata[82]. Lo scopo principale del Certaldese, negli ultimi anni di vita, fu quello di portare a termine le sue opere latine e rafforzare il primato della cultura umanistica in Firenze. Fu proprio in questi anni che Boccaccio, già ammirato dall'élite culturale italiana, poté crearsi una cerchia di fedelissimi a Firenze presso il convento agostiniano di Santo Spirito[83]. Tra questi si ricordano fra Martino da Signa, Benvenuto da Imola e, soprattutto, il notaio e futuro cancelliere della Repubblica Coluccio Salutati[84].
Gli ultimi anni
A fianco della produzione umanistica, Boccaccio continuò a coltivare il suo amore per la poesia volgare, specie per Dante. Preparò un'edizione manoscritta della Divina Commedia, correggendone criticamente il testo, e scrisse il Trattatello in laude di Dante, realizzato in più redazioni tra il 1357 e il 1362, fondamentale per la biografia dantesca. Nel 1370, inoltre, trascrisse un codice del Decameron, il celeberrimo Hamilton 90 scoperto da Vittore Branca[85]. Nonostante le malattie si facessero sempre più gravi, Boccaccio accettò un ultimo incarico dal Comune di Firenze, iniziando una lettura pubblica della Commedia dantesca nella Badia Fiorentina, interrotta al canto XVII dell'Inferno a causa del tracollo fisico[86].
La morte e la sepoltura
Gli ultimi mesi passarono tra le sofferenze fisiche e il dolore per la perdita dell'amico Petrarca, morto tra il 18 e il 19 luglio del 1374. A testimonianza di questo dolore abbiamo l'Epistola XXIV indirizzata al genero dello scomparso Francescuolo da Brossano, in cui il poeta rinnova l'amicizia con il poeta laureato, sentimento che si protrarrà oltre alla morte. Infine, il 21 dicembre 1375 Boccaccio spirò nella sua casa di Certaldo[87]. Pianto sinceramente dai suoi contemporanei o discepoli (Franco Sacchetti[88], Coluccio Salutati[89]) e dai suoi amici (Donato degli Albanzani, Francescuolo da Brossano, genero di Petrarca), Boccaccio fu sepolto con tutti gli onori nella chiesa dei Santi Iacopo e Filippo[N 9]. Sulla sua tomba volle che venisse ricordata la sua passione dominante per la poesia[90], con la seguente iscrizione funebre[91]:
«Hac sub mole iacent cineres ac ossa Iohannis:
Mens sedet ante Deum meritis ornata laborum
Mortalis vite. Genitor Bocchaccius illi,
Patria Certaldum, studium fuit alma poesis.»
«Sotto questa lastra giacciono le ceneri e le ossa di Giovanni:
La mente si pone davanti a Dio, ornata dai meriti delle fatiche della vita mortale.
Boccaccio gli fu genitore, Certaldo la patria, amore l’alma poesia.»
(Epitaffio funebre di Giovanni Boccaccio)
Nella produzione del Boccaccio si possono distinguere le opere della giovinezza, della maturità e della vecchiaia. La sua opera più importante e conosciuta è il Decameron.
Opere del periodo napoletano
Tra le sue prime opere del periodo napoletano vengono ricordate: Caccia di Diana (1334 circa)[92], Filostrato (1335), il Filocolo (1336-38)[93], Teseida (1339-41)[94].
La Caccia di Diana (1333–1334)
La Caccia di Diana è un poemetto di 18 canti in terzine dantesche che celebra in chiave mitologica alcune gentildonne napoletane. Le ninfe, seguaci della casta Diana, si ribellano alla dea e offrono le loro prede di caccia a Venere, che trasforma gli animali in bellissimi uomini. Tra questi vi è anche il giovane Boccaccio che, grazie all'amore, diviene un uomo pieno di virtù: il poemetto propone, dunque, la concezione cortese e stilnovistica dell'amore che ingentilisce e nobilita l'essere umano[95].
Il Filostrato (1335)
Il Filostrato (che alla lettera dovrebbe significare nel greco approssimativo del Boccaccio «vinto d'amore») è un poemetto scritto in ottave che narra la tragica storia di Troilo, figlio del re di Troia Priamo, che si era innamorato della principessa greca Criseide. La donna, in seguito a uno scambio di prigionieri, torna al campo greco, e dimentica Troilo. Quando Criseide in seguito s'innamora di Diomede, Troilo si dispera e va incontro alla morte per mano di Achille. Nell'opera l'autore si confronta in maniera diretta con la precedente tradizione dei «cantari», fissando i parametri per un nuovo tipo di ottava essenziale per tutta la letteratura italiana fino al Seicento[96]. Il linguaggio adottato è difficile, altolocato, spedito, a differenza di quello presente nel Filocolo, in cui è molto sovrabbondante[97].
Il Filocolo (1336-1339)
Il Filocolo (secondo un'etimologia approssimativa «fatica d'amore») è un romanzo in prosa: rappresenta una svolta rispetto ai romanzi delle origini scritti in versi. La storia ha come protagonisti Florio, figlio di un re saraceno, e Biancifiore (o Biancofiore), una schiava cristiana abbandonata da bambina. I due fanciulli crescono assieme e da grandi, in seguito alla lettura del libro di Ovidio Ars Amandi s'innamorano, come era successo per Paolo e Francesca dopo avere letto Ginevra e Lancillotto. Tuttavia il padre di Florio decide di separarli vendendo Biancifiore a dei mercanti. Florio decide quindi di andarla a cercare e dopo mille peripezie (da qui il titolo Filocolo) la rincontra. Infine, il giovane si converte al cristianesimo e sposa la fanciulla[98].
Teseida delle nozze d'Emilia (1339-1340)
Il Teseida è un poema epico in ottave in cui si rievocano le gesta di Teseo che combatte contro Tebe e le Amazzoni. L'opera costituisce il primo caso in assoluto nella storia letteraria in lingua italiana di poema epico in volgare e già si manifesta la tendenza di Boccaccio a isolare nuclei narrativi sentimentali, cosicché il vero centro della narrazione finisce per essere l'amore dei prigionieri tebani Arcita e Palemone, molto amici, per Emilia, regina delle Amazzoni e cognata di Teseo; il duello fra i due innamorati si conclude con la morte di Arcita e le nozze tra Palemone ed Emilia[99].
Opere del periodo fiorentino
Tra le opere scritte durante la sua permanenza nella borghese Firenze emergono La Comedia delle Ninfe fiorentine (o Ninfale d'Ameto) del 1341-1342[100], L'Amorosa visione (1342-1343)[101], la Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344)[102] e il Ninfale fiesolano (1344-1346)[101]. Le opere della giovinezza riguardano il periodo compreso tra il 1333 e il 1346.
Comedia delle ninfe fiorentine (1341-1342)
La Comedia delle ninfe fiorentine (o Ninfale d'Ameto) è una narrazione in prosa, inframmezzata da componimenti in terzine cantati da vari personaggi. Narra la storia di Ameto, un rozzo pastore che un giorno incontra delle ninfe devote a Venere e si innamora di una di esse, Lia. Nel giorno della festa di Venere le ninfe si raccolgono intorno al pastore e gli raccontano le loro storie d'amore. Alla fine Ameto è immerso in un bagno purificatore e comprende così il significato allegorico della sua esperienza: infatti le ninfe rappresentano la virtù e l'incontro con esse lo trasformarono da essere rozzo e animalesco in uomo[103].
Amorosa visione (1341-1343)
L'Amorosa visione è un poema in terzine suddiviso in cinquanta canti. La narrazione vera e propria è preceduta da un proemio costituito da tre sonetti che, nel loro complesso, formano un immenso acrostico, nel senso che essi sono composti da parole le cui lettere (vocali e consonanti) corrispondono ordinatamente e progressivamente alle rispettive lettere iniziali di ciascuna terzina del poema. La vicenda descrive l'esperienza onirica di Boccaccio che, sotto la guida di una donna gentile perviene a un castello, sulle cui mura sono rappresentate scene allegoriche che vedono protagonisti illustri personaggi del passato. Più in dettaglio in una stanza sono rappresentati i trionfi di Sapienza, Gloria, Amore e Ricchezza, nell'altra quello della Fortuna, grazie ai cui exempla spera di portare Boccaccio alla purezza dell'anima. Se l'influenza dantesca è notevole (sia per la tematica del viaggio sia della visione), Boccaccio però si dimostra restio nel giungere alla redenzione: preferisce concludere la vicenda rinnegando l'esperienza formativa e rifugiandosi con Fiammetta nel bosco da cui era iniziata la vicenda, anche se poi il desiderio amoroso verso di lei non si compirà per l'improvvisa sparizione dell'amata[104].
Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344)
L'Elegia di Madonna Fiammetta è un romanzo in prosa suddiviso in nove capitoli che racconta di una dama napoletana abbandonata e dimenticata dal giovane fiorentino Panfilo. La lontananza di Panfilo le crea grande tormento, accresciuto dal fatto che Fiammetta è sposata e deve nascondere al marito il motivo della sua infelicità. L'opera ha la forma di una lunga lettera rivolta alle donne innamorate; la lunga confessione della protagonista consente una minuziosa introspezione psicologica[N 10]. La vicenda è narrata dal punto di vista della donna, un elemento nettamente innovativo rispetto a una tradizione letteraria nella quale la donna era stata oggetto e non soggetto amoroso[105]: essa non viene più a essere ombra e proiezione della passione dell'uomo, ma attrice della vicenda amorosa; vi è, quindi, il passaggio della figura femminile da un ruolo passivo a un ruolo attivo[106].
Ninfale fiesolano (1344 -1346)
Il Ninfale fiesolano è un poemetto eziologico in ottave che racconta le origini di Fiesole e Firenze: l'opera è un cordiale omaggio alla città di Firenze, di cui il Boccaccio cercava di attirarsi i favori. Il giovane pastore Africo, che vive sulle colline di Fiesole coi genitori, sorpresa nei boschi un'adunata di ninfe di Diana, s'innamora di Mensola, che, con le altre ninfe della dea, è obbligata alla castità. Dopo una vicenda d'amore tormentata, dovuta all'impossibilità dell'amore tra una dea ancella di Venere e un mortale, Africo si suicida e il suo sangue cade nel torrente. La ninfa però è incinta e, nonostante si sia nascosta in una grotta, aiutata dalle ninfe più anziane, viene un giorno scoperta da Diana, che la trasforma nell'acqua del torrente, che da quel giorno in poi assumerà il suo nome. Il bambino viene invece affidato a un'altra ninfa, che lo consegnerà alla madre del povero pastore[107].
Il Decameron (1348-1353)
Titolo e struttura
Il capolavoro di Boccaccio è il Decameron[108], il cui sottotitolo è Il principe Galeotto (a indicare la funzione che il libro avrà di intermediario tra amanti) e il cui titolo fu ricalcato dal trattato Exameron di sant'Ambrogio[109]. Il libro narra di un gruppo di giovani (sette ragazze e tre ragazzi) che, durante l'epidemia di peste del 1348, incontratisi nella chiesa di Santa Maria Novella, decidono di rifugiarsi sulle colline presso Firenze. Per due settimane l'«onesta brigata» s'intrattiene serenamente con passatempi vari, in particolare raccontando a turno le novelle, raccolte in una cornice narrativa dove si intercavallano più piani narrativi: ciò permette al Boccaccio di intervenire criticamente su varie tematiche connesse ad alcune novelle che già circolavano liberamente[110].
La Brigata
I nomi dei dieci giovani protagonisti sono Fiammetta, Filomena, Emilia, Elissa, Lauretta, Neifile, Pampinea, Dioneo, Filostrato e Panfilo. Ogni giornata ha un re o una regina che stabilisce il tema delle novelle; due giornate però, la prima e la nona, sono a tema libero. L'ordine col quale vengono decantate le novelle durante l'arco della giornata da ciascun giovane è prettamente casuale, con l'eccezione di Dioneo (il cui nome deriva da Dione, madre della dea Venere), che solitamente narra per ultimo e non necessariamente sul tema scelto dal re o dalla regina della giornata, risultando così essere una delle eccezioni che Boccaccio inserisce nel suo progetto così preciso e ordinato. L'opera presenta invece una grande varietà di temi, di ambienti, di personaggi e di toni; si possono individuare come centrali i temi della fortuna, dell'ingegno, della cortesia e dell'amore[111].
Tematiche
Il Decameron è, secondo le parole del padre della storiografia letteraria italiana Francesco de Sanctis, «la terrestre Commedia»[112]: in essa Boccaccio dimostra di aver saputo magistralmente affrescare l'intero codice etico dell'essere umano, costretto ad affrontare situazioni in cui si richiede l'ingegno per superare le difficoltà poste dalla Fortuna. In Boccaccio, ormai, è completamente svincolata da forze sovrannaturali (come nel caso di Dante, che riflette sulla Fortuna nel VII canto dell'Inferno[113]), lasciandola gestire e affrontare dal protagonista[114]. La narrazione di tematiche erotiche o sacrileghe (come per esempio quelle relative alla novella di Ferondo in Purgatorio, o di Masetto da Lamporecchio) non è giudicata moralmente dall'autore, che invece guarda con sguardo neutrale quanto possa essere ricca e variegata l'umanità. Giudizio ancor più comprensibile alla luce dei valori "laici" portati nella narrativa da un esponente della classe mercantile e borghese del Trecento, per di più figlio naturale di uno di quei mercanti che popolano questa commedia umana[115].
Opere della vecchiaia
Nell'ultimo ventennio della sua vita Boccaccio si dedicò sia alla stesura di opere impregnate della nuova temperie umanistica sia a quelle in lingua volgare, continuando pertanto quel filone che si protraeva fin dagli anni napoletani. Nel primo caso Boccaccio si dedicò alla stesura di opere enciclopediche (la Genealogia deorum gentilium e il De montibus) sulla scia dell'amico e maestro Petrarca, affiancandola anche a quelle dal sapore più narrativo quali il De mulieribus claris e il De casibus virorum illustrium, impregnate comunque di un sapore moralisticheggiante per il fine etico di cui esse sono portavoce[116]. Tornando sul filone della letteratura in lingua volgare, dell'ultimo Boccaccio si ricorda principalmente Il Corbaccio (o Laberinto d'amore), opera dal titolo oscuro, datato dopo il 1365 e nettamente in controtendenza rispetto alla considerazione positiva che le donne ebbero nell'economia letteraria boccacciana[117].
La narrazione è incentrata sull'invettiva contro le donne: il poeta, illuso e rifiutato da una vedova, sogna di giungere in una selva (che richiama il modello dantesco) nella quale gli uomini che sono stati troppo deboli per resistere alle donne vengono trasformati in bestie orribili. Qui incontra il defunto marito della donna che gli ha spezzato il cuore, il quale, dopo avergli elencato ogni sorta di difetto femminile, lo spinge ad allontanare ogni suo pensiero da esse lasciando più ampio spazio ai suoi studi, che invece innalzano lo spirito[118]. Da segnalare, infine, le Esposizioni sopra la Comedia, frutto dei commenti esegetici tenuti in Santo Stefano in Badia poco prima della morte[86].
Tra Dante e Petrarca
Tra Medioevo e umanesimo
La figura di Boccaccio, sia umana sia letteraria, rappresenta un ponte tra il Medioevo e l'età moderna. Attratto, da un lato, verso il mondo medievale per il suo attaccamento alla città natale e ai valori dell'età di mezzo, dall'altro il suo ottimismo e la sua fiducia nelle potenzialità dell'essere umano lo portano già a essere un protoumanista quale il suo maestro Petrarca[119]. Al contrario di quest'ultimo, infatti, Boccaccio si rivelò sempre attaccato alla città natale Firenze, rivelando un'affinità straordinaria con l'atteggiamento dantesco. Comunque, se Dante si considerava come figlio dell'amata Firenze, tanto da non riuscire a lenire il dolore col passare degli anni[120], Boccaccio sentì la lontananza anche di Napoli, la città della giovinezza, rivelando quindi una maggiore apertura culturale e sociale rispetto all'Alighieri.
Una sensibilità moderna e medievale al contempo
Boccaccio dimostrò una sensibilità moderna nell'affrontare le vicende umane, legate alla volubile fortuna, dandole un'ottica decisamente più "laica" rispetto a Dante: da qui, Francesco de Sanctis giunse a definire Boccaccio come il primo scrittore distaccato dalla mentalità medievale[121]. Al contrario il maggiore studioso di Boccaccio del XX secolo, Vittore Branca, nel suo libro Boccaccio medievale, tese a rimarcare la mentalità medievale del Certaldese, su cui si basano i valori, le immagini e le scene delle novelle[122]. Uno dei massimi filologi italiani del XX secolo, Gianfranco Contini, espresse il medesimo giudizio e chiosò dicendo che «oggi il Boccaccio appare per un verso di cultura medievale e retrospettiva, per un altro buon deuteragonista italiano di quel movimento aristocratico che fu l'Umanesimo»[123].
I due termini, al contrario di quanto si creda, non sono del tutto sinonimi fra di loro. Se boccacciano è un aggettivo usato soltanto nella terminologia scientifica (es: studi boccacciani; poetica boccacciana)[124], boccaccesco può essere usato sì come omonimo di boccacciano se usato nella terminologia accademica, ma è usato soprattutto per indicare la vicinanza alle tematiche licenziose proprie di alcune novelle del Decameron[125].
Lo "sperimentalismo boccacciano"
Già fin dal periodo napoletano Boccaccio dimostra un'incredibile versatilità nel campo delle lettere, sapendo con maestria adoperare il materiale letterario con cui entra in contatto, rielaborandolo e producendo nuovi lavori originali. Nel clima cosmopolita napoletano, ove l'etica cavalleresca francese importata dagli Angiò, le influenze arabo-bizantine, l'erudizione di corte e la presenza di cultori della memoria dantesca si incontrano fra i vicoli della città partenopea, Boccaccio dà adito a uno sperimentalismo in cui tutti questi elementi si incrociano[126][127]. Prendendo, per esempio, il Filocolo, primo romanzo in volgare italiano[126], si può notare che:
- il titolo è un grecismo[128].
- la narrazione riprende la vicenda amorosa di Fiorio e Biancifiore, legata alla tradizione occitanica[128].
- influssi classicisti, per il modello della Historia distructionis Troiae di Guido delle Colonne[129].
La narrativa moderna
Con la narrativa promossa dal Boccaccio, la prosa letteraria italiana raggiunge un livello elevatissimo. Grazie alla volgarizzazione di Tito Livio Boccaccio adotta infatti un periodare delle frasi più sciolto, meno paratattico e incentrato invece sulla concatenazione gerarchica dei periodi, tipica dell'opera liviana[130]. Tale stile fluido e scorrevole, intriso di un linguaggio proprio della dimensione quotidiana[131] (resa ancor più marcata dalla presenza di dialettismi[132] e da contesti dominati da doppi sensi[133]), si contrappone decisivamente al resto della produzione letteraria in prosa, caratterizzata da un periodare paratattico e asciutto[134].
L'umanesimo di Boccaccio
Il valore del greco
Boccaccio, in certe occasioni, si dimostrò più volte in disaccordo con Petrarca man mano che il Certaldese si impadroniva dei principi della lezione umanistica. A parte la crisi del 1354, dovuta al trasferimento di Petrarca nella nemica Milano, tra Boccaccio e il poeta aretino ci fu uno scontro sul valore che il greco antico poteva apportare alla cultura occidentale: se per Petrarca tutta l'eredità della cultura greca fu assorbita da quella latina, Boccaccio (che fu a stretto contatto col lavoro di traduzione di Leonzio Pilato) invece ritenne che i Latini non avessero assorbito tutte le nozioni della civiltà ellenica[135]. Come gli antichi Romani imitarono e ripresero la letteratura greca, così anche gli umanisti dovevano riprenderne il pensiero. La lungimiranza culturale di Boccaccio, la cui proposta culturale trovò conferma già sotto la generazione d'umanisti successiva[136], fu in questo modo sintetizzata dal filologo bizantino Agostino Pertusi:
«[Il Boccaccio] intravvide, seppur vagamente, che l'Umanesimo per esser veramente integrale doveva completarsi con la matrice della cultura e della 'humanitas latina, cioè con la cultura e l'humanitas' dei Greci»
(Agostino Pertusi in Branca 1977, p. 118)
L'erudizione "didattica" e l'umiltà del Boccaccio
Al contrario del maestro Petrarca, Boccaccio cercò sempre di fornire un'utilità pratica alle sue opere umanistiche di carattere erudito. Sia nella Genealogia sia nel De montibus, infatti, Boccaccio ebbe come scopo quello di fornire dei prontuari enciclopedici volti a conservare il patrimonio della cultura classica e a trasmetterlo alla posterità. Nel caso del Proemio dei libri della Genealogia, rivolgendosi al destinatario dell'opera, Ugo IV di Lusignano, Boccaccio espresse tale proposito con grande umiltà, dopo aver ricordato la sua inadeguatezza nell'adempiere questo compito, ricordando il valore intellettuale di Petrarca[137]:
«Iussu igitur tuo, montanis Certaldi cocleis et sterili solo derelictis, tenui licet cimba in vertiginosum mare crebrisque implicitum scopulis novus descendam nauta, incertus, num quid opere precium facturus sim, si omnia legero litora et montuosa etiam nemora, scrobes et antra, si opus sit, peragravero pedibus, ad inferos usque descendero, et, Dedalus alter factus, ad ethera transvolavero; undique in tuum desiderium, non aliter quam si per vastum litus ingentis naufragii fragmenta colligerem sparsas, per infinita fere volumina deorum gentilium reliquias colligam, quas comperiam, et collectas evo diminutas atque semesas et fere attritas in unum genealogie corpus, quo potero ordine, ut tuo fruaris voto, redigam.»
«Per tuo comandamento adunque, lasciati i sassi dei monti di Certaldo et lo sterile paese, con debile barchetta in un profondo mare, pieno di spessi scogli, come novo nocchiero entrerò, dubbioso veramente che opra io mi sia per fare, se bene leggerò tutti i liti, i montuosi boschi, gli antri et le spelonche, et se sarà bisogno caminar per quelli et discender fino all’Inferno. Et fatto un altro Dedalo, Secondo il tuo disio volelerò per insino al cielo; non altramente che per un vasto lido raccogliendo i fragmenti d’un gran naufragio, così raccorrò io tutte le reliquie che troverò sparse quasi infiniti volumi dei Dei gentili; et raccolte et sminuite, et quasi fatte in minuzzoli, con quel ordine ch’io potrò, acciò che tu habbi il tuo disio, in un corpo di Geneologia le ritornerò.»
(Genealogia deorum gentilium, Proemio Libro I; per la traduzione Geneologia degli Dei. I quindeci libri, tradotti et adornati per messer Giuseppe Betussi da Bassano, 1547)
Lo stesso proposito è proprio del prontuario geografico De montibus, ove sottolinea i possibili punti di "debolezza" dovuti agli errori e alle imprecisioni causate dalla sua ignoranza, ricordando ai lettori di intervenire, qualora si dovessero accorgere di tali mancanze:
«Quod si correctioribus libris quam quos viderim usi lectores advertant, sint, queso, ad indulgentiam faciles et emendent.»
«E se ho visto libri più corretti di quelli che si utilizzano, i lettori se ne accorgano e, per carità, siano inclini all'indulgenza e li correggano.»