Guerra in Iraq
conflitto che oppose l'Iraq a una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti / Da Wikipedia, l'enciclopedia encyclopedia
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La guerra in Iraq (o seconda guerra del Golfo) è stato un conflitto bellico iniziato il 20 marzo 2003 con l'invasione dell'Iraq da parte di una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti d'America e terminato il 18 dicembre 2011 col passaggio definitivo di tutti i poteri alle autorità irachene insediate dall'esercito americano su delega governativa statunitense.
Guerra in Iraq (seconda guerra del Golfo) parte della guerra al terrorismo | |||
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Elicotteri multiruolo Black Hawk della 101ª Divisione Aviotrasportata entrano in Iraq durante le fasi iniziali dell'invasione. | |||
Data | 20 marzo 2003 – 18 dicembre 2011 (8 anni e 274 giorni) | ||
Luogo | Iraq | ||
Causa | Invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti | ||
Esito |
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Schieramenti | |||
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Comandanti | |||
Effettivi | |||
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Perdite | |||
Perdite fra la popolazione irachena Morti violente (marzo 2003-agosto 2007), Opinion Research Survey: 1.033.000 (intervallo 95% c.l.: 946 000-1 120 000. Modalità: 48% armi da fuoco; 20% auto-bomba; 9% bombardamenti aerei; 6% incidenti; 6% altre esplosioni) Morti totali in eccesso (marzo 2003-giugno 2006), Johns Hopkins/Lancet: 655.000 (intervallo 95% c.l.: 393.000-943.000; di cui 601.000 morti violente) Morti violente (maggio 2003-novembre 2006), ministro della Sanità iracheno: 100.000-150.000 Morti totali in eccesso (marzo 2003 – giugno 2011), PLOS Medicine Study: 405,000 (60% violento) (intervallo 95% c.l.: 48,000–751,000)[5] Morti violente (marzo 2003-giugno 2006), Iraq Family Health Survey/Organizzazione Mondiale della Sanità: 104.000-223.000[6][7] Morti violente fra i civili (marzo 2003-settembre 2007), Iraq body count: 74.427-81.114[8] | |||
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L'obiettivo principale dell'invasione era la deposizione di Saddam Hussein, già da tempo visto con ostilità dagli Stati Uniti per vari motivi: timori (rivelatisi poi infondati) su un suo ipotetico tentativo di dotarsi di armi di distruzione di massa, il suo presunto appoggio al terrorismo islamista, il volersi appropriare delle ricchezze petrolifere del Kuwait e l'oppressione dei cittadini iracheni da parte di una dittatura sanguinaria. L'obiettivo di invadere l'Iraq fu raggiunto rapidamente: il 15 aprile 2003 tutte le principali città erano nelle mani della coalizione e, il 1º maggio, il presidente statunitense George W. Bush proclamò concluse le operazioni militari su larga scala. Tuttavia, il conflitto si tramutò abbastanza presto in una resistenza e in una guerra di liberazione dalle truppe straniere, considerate invasori da molti gruppi armati arabi sunniti e sciiti, per sfociare infine in una guerra civile fra le varie fazioni, causata da una squilibrata gestione del potere (che agevolò le componenti sciite maggioritarie).
I costi umani della guerra non sono ben definibili e sono spesso oggetto di dibattito. Più in generale, il bilancio dell'intera guerra risulta difficile in quanto, a fronte della deposizione di Saddam e dell'instaurazione di una democrazia formale, si è avuto un netto aumento delle violenze settarie in Iraq, una penetrazione di al-Qāʿida nel Paese e, in generale, un calo della sicurezza dei cittadini.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 22 maggio 2003 approvò la risoluzione n. 1483 con la quale sollecitava la Comunità Internazionale a contribuire alla stabilità ed alla sicurezza del Paese iracheno. Il 15 luglio 2003 iniziò la missione italiana denominata «operazione Antica Babilonia» alle dipendenze delle forze britanniche nel sud del Paese nella regione di Dhi Qar. Il 16 ottobre 2003, il Consiglio di Sicurezza approvò all'unanimità, ai sensi del capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite, la risoluzione nº 1511 del 16 ottobre 2003 sull'Iraq che gettava le basi per una partecipazione internazionale e delle Nazioni Unite alla ricostruzione politica ed economica dell'Iraq e al mantenimento della sicurezza.
Fin da prima dell'inizio della guerra, l'ipotesi di un'invasione dell'Iraq scatenò malumori in tutto il mondo, contrapponendo chi la riteneva necessaria e chi la considerava un crimine. Oltre all'opinione pubblica, le polemiche si svilupparono anche sul piano internazionale: in Europa, la Francia e la Germania si opposero fin dall'inizio all'intervento, mentre il Regno Unito offrì il suo supporto politico e militare. Dopo che la guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein terminò, l'Italia dislocò i suoi reparti nel sud del Paese con base principale a Nāṣiriya, sotto la guida inglese. Questa partecipazione suscitò forti polemiche.
Delle battaglie sono proseguite a fasi alterne durante l'occupazione e anche dopo il ritiro americano nel 2011 fino a culminare nel 2014 in una nuova guerra civile in Iraq, che ha portato alla creazione dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante.
Anni ottanta e la prima guerra del Golfo Persico
Durante gli anni ottanta i rapporti fra l'Iraq di Saddam Hussein, gli Stati Uniti, i Paesi occidentali e le monarchie arabe della regione del Golfo Persico (Arabia Saudita, Kuwait, Giordania, Qatar, ecc.) furono sostanzialmente buoni per ragioni di realpolitik. Infatti, nonostante la sua brutalità e la sua contiguità politica con l'Unione Sovietica, il regime laico instaurato dal partito Ba'th era considerato un bastione contro l'espansione del regime islamico iraniano, con cui fu in guerra dal 1980 al 1988.
Durante la Guerra Iran-Iraq gli Stati Uniti e il blocco politico occidentale sostennero direttamente il regime di Saddam Hussein, fornendo informazioni geografiche e consiglio militare, e sottoscrivendo accordi commerciali riguardanti forniture militari di seconda scelta (comunque superiori alle tecnologie iraniane). Parallelamente, tuttavia, Washington perseguiva sottobanco una politica regionale tesa a logorare entrambe le potenze, nell'ottica di evitare sia la leadership fondamentalista iraniana, sia quella "socialista" e "panaraba" del partito Ba'th. Lo scandalo Iran-Contras fece emergere abbastanza chiaramente i fini ultimi della politica statunitense nel Vicino Oriente.
Nell'agosto 1990 l'invasione irachena del Kuwait spinse gli USA e i loro alleati a uno scontro frontale con l'Iraq. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dispose sanzioni economiche e più tardi autorizzò un intervento militare se gli Iracheni non si fossero ritirati dal Kuwait entro il 17 gennaio 1991. L'Iraq ignorò l'ultimatum e al suo scadere un'ampia coalizione guidata dagli USA scacciò gli Iracheni dal Kuwait (Prima guerra del Golfo Persico)[9]
Il presidente statunitense Bush si attenne al mandato ONU, evitando di rovesciare il regime di Saddam Hussein; questo anche per timore che un vuoto di potere portasse a una situazione ancora peggiore. Bush optò invece per una politica di contenimento, basata su:
- Smantellamento delle armi di distruzione di massa (Weapons of Mass Destruction, WMD: armi chimiche, biologiche e nucleari) irachene, affidato a squadre di ispettori dell'ONU;
- Pressione militare con la costruzione di basi USA nei Paesi vicini e l'imposizione delle cosiddette no-fly zone, che favorirono la formazione di un'entità curda semi-indipendente e furono causa di numerose scaramucce;
- Mantenimento delle sanzioni economiche per rendere impopolare il regime e ostacolarne il riarmo.
La successiva amministrazione Clinton si attenne a questa politica ma fu costretta a lievi modifiche in due occasioni:
- Nel 1996 le nefaste conseguenze delle sanzioni sui civili iracheni spinsero l'ONU a introdurre il programma Oil for Food, che permetteva all'Iraq di vendere una limitata quantità petrolio in cambio di generi di prima necessità;
- Nel 1998 Saddam Hussein bloccò le ispezioni ONU, accusando gli ispettori di spionaggio a favore degli USA.
L'amministrazione di George W. Bush e l'inizio della "guerra al terrorismo"
Verso la fine degli anni novanta diversi intellettuali e politici americani (soprattutto i Neocons) cominciarono a premere per un'invasione dell'Iraq.[10] Fu fondato un istituto denominato progetto per un nuovo secolo americano[11]. Molti di coloro che vi appartenevano erano vicini al Partito Repubblicano e la loro influenza crebbe enormemente con l'elezione (novembre 2000) del figlio dell'ex presidente Bush. Nella nuova Amministrazione entrarono diversi fautori dell'invasione, fra cui il vicepresidente Cheney, il Segretario alla Difesa Rumsfeld e lo stesso George Bush.
Inizialmente l'Iraq venne lasciato in disparte, forse perché la relativa debolezza politica del presidente non gli permetteva di ignorare le ragioni dei "realisti" (che temevano le conseguenze negative dell'invasione), rappresentati entro l'Amministrazione dal Segretario di Stato Colin Powell. Gli attentati dell'11 settembre 2001 gli permisero di uscire dall'impasse presentandosi come il presidente di una nazione già in guerra. Bush proclamò dapprima la cosiddetta guerra al terrorismo e poi enunciò la dottrina della guerra preventiva (dottrina Bush):[12] gli USA non avrebbero atteso gli attacchi nemici, ma avrebbero usato la propria potenza militare per prevenirli, secondo una nuova dottrina militare, detta Dottrina Wolfowitz.
È stato riferito dall'ex direttore dell'antiterrorismo degli Stati Uniti Richard Clarkes[13] e dall'ex ambasciatore britannico a Washington Cristopher Meyer[14] che Bush pensasse subito all'Iraq, cambiando però idea quando si rese conto che gli attentati erano stati compiuti dal gruppo terrorista al-Qāʿida, capeggiato dal saudita Osāma bin Lāden. bin Lāden e i suoi avevano base in Afghanistan dove erano appoggiati dai Talebani, fazione che controllava gran parte del Paese. Poiché questi rifiutarono di consegnare bin Lāden, gli USA si allearono con i loro nemici interni e li rovesciarono, installando a Kabul un governo filo-occidentale (dicembre 2001); bin Lāden riuscì a fuggire.
Nonostante la campagna afghana non fosse conclusa, l'amministrazione Bush spostò rapidamente la propria attenzione ad altri Stati che riteneva pericolosi per la sicurezza statunitense: nel discorso sullo stato dell'Unione del gennaio 2002 Bush parlò del cosiddetto asse del male formato da stati canaglia quali Iran, Iraq e Corea del Nord, cui occorreva contrapporsi. Nella pratica, gli sforzi dell'amministrazione si indirizzarono soprattutto contro l'Iraq.
Gli argomenti delle due parti
Le ragioni dei sostenitori
I sostenitori della guerra addussero diverse motivazioni a suo favore:
- La probabile ricostituzione dell'arsenale iracheno di armi di distruzione di massa; nell'ottobre 2002 una National Intelligence Estimate. statunitense dedicata all'argomento dichiarava che: «L'Iraq ha proseguito i suoi programmi nel campo delle armi di distruzione di massa, disobbedendo alle risoluzioni dell'ONU ed alle restrizioni che esse impongono. Baghdad possiede armi chimiche e biologiche ed anche missili di gittata superiore a quella permessa dalle restrizioni imposte dall'ONU; in assenza di ulteriori restrizioni, è probabile che giunga a possedere armi nucleari entro la fine di questo decennio» favorita dall'assenza di ispezioni e dall'allentamento delle sanzioni. Per esempio, nel settembre 2002 Bush dichiarò che l'Iraq voleva produrre armi di distruzione di massa in grado di mettere in pericolo la sicurezza dell'intero Occidente. Questo genere di argomenti venne rinforzato da numerose voci riguardo ai programmi di riarmo iracheno (soprattutto con lo scoppio del caso Nigergate, che ventilava un traffico di materiali nucleari tra il Niger e l'Iraq, poi rivelatosi del tutto infondato).
- I contatti fra l'Iraq e vari gruppi terroristici, indice di una possibile collaborazione (l'Iraq avrebbe potuto fornire armi atomiche da impiegare in un attentato). Il vicepresidente Cheney sostenne che esistevano legami fra al-Qāʿida e l'Iraq; Bush non fu mai così esplicito, ma fece diversi riferimenti impliciti a questa possibilità.
- Il prestigio internazionale degli Stati Uniti presso i governi sarebbe uscito rafforzato, spingendo molti paesi ad allinearsi con Washington e migliorando la situazione politica internazionale;
- L'abbattimento e la sostituzione del regime iracheno con un governo democratico avrebbe migliorato l'immagine degli USA in Vicino Oriente, fornendo un esempio da imitare alle popolazioni della regione, generalmente governate in modo autocratico;
- Le sistematiche violazioni dei diritti umani e i numerosi crimini di cui il regime iracheno era responsabile, fra cui le due guerre da esso provocate (Guerra Iran-Iraq e Guerra del Golfo) e le atrocità nei confronti della popolazione curda[15] e della popolazione irachena in generale.
- Una volta conquistato, si sarebbe potuto usare l'Iraq come base per attaccare e rovesciare i regimi di Siria e Iran.
- Violazioni delle no-fly zone sino a poco prima dell'intervento.
- Il rifiuto e la mancanza di collaborazione con le ispezioni UNMOVIC.
Ragioni che secondo gli oppositori hanno contribuito alla decisione di intraprendere la guerra:
- Gli USA volevano rendere più sicuri i propri approvvigionamenti energetici, riducendo l'importanza di Paesi come il Venezuela di Chávez, o della stessa Arabia Saudita;
- Numerose compagnie americane desideravano partecipare allo sfruttamento delle risorse petrolifere irachene (da cui erano escluse per via delle sanzioni), alla "ricostruzione" dell'Iraq, o anche solo alla fornitura di armamenti per la guerra. Inoltre, si pensò che dopo la guerra un aumento della produzione irachena avrebbe abbassato il prezzo del greggio, favorendo l'intera economia occidentale; Alan Greenspan, che all'epoca era a capo della Federal Reserve[16] nelle sue memorie sostenne di aver spinto l'amministrazione Bush a considerare le benefiche ricadute economiche dell'eliminazione del regime iracheno (ricevendo la risposta "sfortunatamente, non possiamo parlare di petrolio"), aggiungendo però che questa era la sua posizione personale, mentre né Bush né Cheney avrebbero giustificato la guerra con argomenti economici. La "lobby del petrolio", però, si schierò contro la guerra.[17]
- Israele (stretto alleato degli USA con cui l'Iraq era formalmente in guerra da decenni) avrebbe beneficiato dell'eliminazione di uno dei suoi più acerrimi avversari.
Le ragioni degli oppositori
Così come i suoi sostenitori, gli oppositori della guerra hanno portato una serie di argomenti, sia ideali che pratici, a sostegno della loro tesi:
- Il riarmo iracheno e una massiccia presenza di armi di distruzione di massa era dubbio[18] e in ogni caso la ripresa delle ispezioni sarebbe stata sufficiente a dissipare le incertezze.
- Il ruolo di sponsor del terrorismo attribuito al regime iracheno era esagerato: Ṣaddām appoggiava organizzazioni terroristiche, specie palestinesi[19] e inoltre i suoi servizi segreti erano responsabili di omicidi di oppositori all'estero. Ma non vi erano seri indizi che il Governo iracheno fosse implicato in atti terroristici contro gli USA in tempi recenti. L'ipotesi che Ṣaddām affidasse armi atomiche a un gruppo terroristico appariva inverosimile per diversi motivi.[20]
- In caso di insuccesso il prestigio americano avrebbe subìto un duro colpo; anche in caso di successo, Paesi come Iran e Corea del Nord avrebbero potuto decidere di intensificare i propri sforzi per raggiungere armamenti nucleari (e diventare relativamente inattaccabili) piuttosto che adeguarsi ai desideri degli USA.
- La rapida formazione di un governo democratico filo-occidentale in Iraq appariva improbabile, sia perché non era scontato che la guerra sarebbe finita in tempi brevi, sia perché gli oppositori di Ṣaddām erano divisi fra loro e avevano spesso obiettivi opposti. Inoltre si temeva che le fazioni sciite vicine all'Iran fossero le più popolari, il che avrebbe potuto portare all'instaurazione di una teocrazia filo-iraniana;
- La debolezza del legame con la lotta ad al-Qāʿida, e la non facile stabilizzazione dell'Iraq postbellico facevano temere un crollo della popolarità degli USA nel mondo arabo, favorendo il "reclutamento" di nuovi terroristi;
- La scelta di una "guerra preventiva" non avallata dall'ONU[21] era illegale e pericolosa;
- Il governo di Ṣaddām era esecrabile, ma le vittime della guerra avrebbero potuto essere più numerose di quelle del regime;
- Giorgio S. Frankel nel 2002 aveva previsto che un periodo di instabilità nel Vicino Oriente, avrebbe portato ad una destabilizzazione in Medio Oriente, secondo il Piano Ynon, un progetto di controllo a livello economico e militare delle risorse,[22] con il collasso della produzione di petrolio e a risultati opposti a quelli sperati dai sostenitori della guerra (aumentato peso politico dei produttori di petrolio, aumento del prezzo del greggio, recessione economica).
Così come non tutti i fautori della guerra condividevano tutte le ragioni elencate in precedenza, non tutti i suoi oppositori condividevano tutte le motivazioni appena esposte. Per esempio, è molto probabile che i governi francese, tedesco, russo e cinese si siano opposti alla guerra non per ragioni di principio, ma più probabilmente per timore dell'instabilità che una guerra avrebbe potuto portare nella regione medio-orientale e per ragioni inconfessate di opportunità economica, in quanto diverse compagnie di questi Paesi avevano stipulato accordi vantaggiosi per lo sfruttamento delle risorse petrolifere irachene, che sarebbero entrati in vigore quando le sanzioni internazionali fossero state abolite.
Un'analisi postbellica
Dopo diversi anni dal rovesciamento del regime di Saddam Hussein molti degli argomenti di chi si opponeva al conflitto si sono rivelati realistici e fondati, mentre i vantaggi ("ufficiali" o meno) propagandati da chi era favorevole non sono stati conseguiti.[23][24]
- Le squadre di ricerca americane dispiegate dopo la conquista del Paese non hanno trovato quantitativi rilevanti e significativi di armi di distruzione di massa.[25] Alcuni membri delle squadre di ispezione americane sostengono che il governo iracheno aveva sicuramente intenzione di riprendere il proprio riarmo nucleare, chimico e biologico non appena le sanzioni ONU fossero state revocate, ma ammette che all'epoca dell'invasione la dotazione irachena di armi di distruzione di massa era quasi inesistente[26], per cui la minaccia rappresentata dalla presenza di armi di distruzione di massa irachene è risultata grandemente esagerata rispetto alla realtà. A questo proposito vi è stata una forte controversia sulla scarsa affidabilità delle informazioni fornite dai servizi segreti occidentali (CIA, MI6, forse persino il SISMI), tanto che i governi cui fanno capo sono stati accusati di aver volutamente esagerato la minaccia irachena per ottenere il via libera dai rispettivi parlamenti. L'ex capo della CIA George Tenet ha sostenuto[27] che la Casa Bianca abbia deliberatamente distorto le informazioni da lui fornite riguardo alle armi di distruzione di massa irachene. Il cosiddetto Downing street memo[28] rivela l'opinione della diplomazia britannica che la realtà fosse "aggiustata" per servire alla politica (the intelligence and facts were being fixed around the policy) piuttosto che il contrario. Un rapporto[29] della commissione sull'intelligence del senato statunitense (approvato da una maggioranza comprendente anche due dei sette membri repubblicani) elenca un gran numero di episodi in cui membri dell'amministrazione Bush hanno rilasciato dichiarazioni non supportate da informazioni allora disponibili o, addirittura, in contrasto con esse. Una sintesi delle conclusioni del rapporto può essere trovata nel comunicato stampa del Senato.[30]
- Gli ipotizzati legami con il terrorismo e con al-Qāʿida – rimasti senza dimostrazione anche negli anni successivi all'intervento USA – appaiono sostanzialmente insufficienti a giustificare l'invasione.[31][32][33]
- È possibile che il disarmo libico e il ritiro siriano dal Libano avvenuti fra il 2004 e il 2006 siano legati al timore di un intervento militare americano da parte di quei governi; d'altra parte, Paesi come Iran[34] e Corea del Nord non hanno minimamente ammorbidito le proprie politiche anti-americane, tanto che la Corea del Nord è giunta a possedere armi nucleari.
- Le elezioni irachene non hanno portato ad una democrazia filo-occidentale né alla nascita di un forte governo in grado di gestire i conflitti interni: semmai, il "nuovo" Iraq appare sull'orlo della disgregazione, per via dell'intensificazione dei conflitti fra i vari gruppi etnici e religiosi.[35][36][37][38] La situazione attuale vede una sorta di "matrimonio di interesse" fra gli americani e il debole governo diretto dai partiti religiosi sciiti[39][40] (vicini all'Iran e favorevoli a introdurre norme islamiche nella legislazione irachena; negli anni ottanta quasi tutti questi gruppi erano considerati dagli USA come organizzazioni terroristiche di matrice islamica): questi partiti hanno parzialmente accantonato le proprie tendenze teocratiche e anti-occidentali, decisione fortemente influenzata dalla necessità sciita di mantenere l'appoggio militare USA.
- La popolarità americana nei Paesi islamici (e non solo) ha subito un calo drastico dopo l'invasione dell'Iraq;[41] inoltre, si stima che la guerra in Iraq sia diventata uno dei principali fattori che favoriscono la crescita del terrorismo islamico.[42]
- Il rovesciamento del regime è indubbiamente l'elemento più positivo nel bilancio della guerra.
- Il prolungarsi della guerra civile e l'accrescersi delle vittime a seguito degli attacchi dei vari gruppi paramilitari hanno deluso le aspettative di una guerra rapida e "pulita".
- Il prezzo del barile di greggio, che all'inizio del 2003 si aggirava attorno ai 30 dollari, ha subito una forte impennata, superando i 75 dollari nell'estate del 2006 e – dopo una breve pausa – ha ripreso a salire, superando i 100 dollari nel gennaio 2008, (per poi ritornare ai precedenti livelli)[43].
Il Rapporto Chilcot
Nel 2014 esce il Rapporto Chilcot del Parlamento britannico, che analizza le responsabilità di Tony Blair nella guerra.[44] Secondo la lunga indagine parlamentare sulla decisione di andare in guerra: «l'azione militare non si poteva considerare l'ultima risorsa possibile»; non c'era «minaccia imminente da parte di Saddam Hussein»; la presenza negli arsenali iracheni di «armi di distruzione di massa era stata presentata con un grado di certezza assolutamente ingiustificato»;[45][46] l'intelligence non aveva «stabilito oltre ogni ragionevole dubbio» che Saddam stesse producendo armi chimiche o biologiche; le basi legali dell'intervento «erano assolutamente insoddisfacenti»;[47] le scelte politiche sull'Iraq furono adottate sulla base di «intelligence e valutazioni false che mai furono seriamente vagliate»[48]. Già in precedenza, il Rapporto Hutton aveva evidenziato l'utilizzo di argomenti ad alto impatto mediatico[49], da parte degli spin doctor di Blair[50].
Paul Wolfowitz, l'inventore della dottrina della guerra preventiva adottata da Bush per gli Stati Uniti, ha poi detto che le armi di distruzione di massa furono un pretesto[51] per attaccare l'Iraq.
La controversia internazionale
L'autorizzazione del Congresso
L'11 ottobre 2002 Bush ottenne dal Congresso l'autorizzazione all'uso della forza per "difendere la sicurezza nazionale degli USA contro la continua minaccia posta dall'Iraq; e per attuare tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU a questo riguardo".[52] Bush avrebbe dovuto spingere il Consiglio di Sicurezza a prendere provvedimenti contro il mancato rispetto di 16 precedenti risoluzioni riguardanti l'Iraq; la forza sarebbe stata ammissibile solo dopo che egli avesse determinato che ulteriori sforzi diplomatici non sarebbero valsi a proteggere gli USA o ad attuare le risoluzioni. Tuttavia Bush non avrebbe avuto bisogno di ulteriori autorizzazioni, né del Congresso né dell'ONU.
La ripresa delle ispezioni e il braccio di ferro all'ONU
Dopo alcune settimane di negoziati in seno al Consiglio gli USA ottennero l'approvazione unanime della risoluzione 1441[53] (8 novembre 2002), che offriva all'Iraq un'ultima possibilità di adempiere ai propri "obblighi in materia di disarmo" e minacciava "serie conseguenze" in caso contrario, fissando una serie di scadenze entro le quali il disarmo sarebbe dovuto procedere.
L'Iraq accettò la risoluzione, permettendo il ritorno degli ispettori e concedendo loro prerogative (come l'accesso illimitato ai "siti presidenziali") che aveva sempre negato. I capi degli ispettori, Hans Blix e Muḥammad al-Barādeʿī, presentarono diversi rapporti.[54][55] Nel primo di questi (30 gennaio 2003) Blix sostenne che l'Iraq non aveva del tutto accettato i propri obblighi, pur non ponendo ostacoli diretti alle ispezioni; al-Barādeʿī (capo dell'AIEA e incaricato della distruzione del programma nucleare) sostenne che molto probabilmente l'Iraq non aveva un programma atomico degno di nota. Entrambi chiesero più tempo prima di dare un giudizio definitivo.
Il 5 febbraio il segretario di stato USA Colin Powell cercò di convincere il Consiglio ad autorizzare l'uso della forza poiché, a suo dire, l'Iraq aveva ancora una volta dimostrato di non rispettare le risoluzioni ONU. Nel suo discorso egli espose le "prove" dell'esistenza di armi di distruzione di massa irachene. La sua tesi fu accolta freddamente e i suoi argomenti furono considerati molto deboli.[56]
I successivi rapporti di Blix e al-Barādeʿī (14 febbraio e 7 marzo) furono più favorevoli all'Iraq, poiché parlavano di progressi, anche se diversi problemi restavano irrisolti, soprattutto nel campo delle armi chimiche: secondo Blix, sarebbero stati necessari parecchi mesi di ispezioni per venirne a capo.
Questi rapporti, uniti all'annuncio francese di un probabile veto, furono deleteri per i tentativi anglo-americani di ottenere un'ulteriore risoluzione che autorizzasse esplicitamente l'invasione. Nonostante forti pressioni statunitensi[57] solo 4 dei 15 Stati presenti nel Consiglio (USA, Regno Unito, Spagna e Bulgaria) erano intenzionati ad approvare la risoluzione (Francia, Germania, Cina, Pakistan e Siria sembravano contrari, mentre Messico, Cile, Camerun, Angola, Guinea e Russia avevano posizioni più sfumate). La nuova risoluzione non fu quindi sottoposta al voto e Bush dichiarò che la diplomazia aveva fallito.
Dopo la caduta di Ṣaddām, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha unanimemente riconosciuto USA e Regno Unito quali potenze occupanti ed invitato i propri membri a contribuire alla stabilizzazione della situazione irachena e a favorire l'autogoverno iracheno (risoluzione 1483[58] del 22 maggio 2003). Successivamente diverse risoluzioni (tutte approvate senza voti contrari) hanno riconosciuto il nuovo governo iracheno.
Le proteste popolari
Il braccio di ferro all'ONU fu accompagnato da manifestazioni di protesta in gran parte del mondo, notevoli sia per la grande partecipazione che per la loro estensione geografica. Anche se il commentatore del New York Times definì l'opinione pubblica mondiale l'unica "superpotenza" in grado di contrastare gli Stati Uniti, gli effetti pratici furono irrilevanti. Infatti esse non scalfirono la determinazione dell'amministrazione statunitense (il cui elettorato era in maggioranza favorevole alla guerra) e non riuscirono neppure a porre una pressione sufficiente su governi (come quello italiano e spagnolo) che appoggiavano l'invasione a dispetto dell'opposizione da parte delle rispettive opinioni pubbliche.
Le proteste da parte di gruppi e organizzazioni contro la guerra, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, cominciarono già nel settembre 2002, prima dell'inizio del conflitto stesso, opponendosi a quella da loro definita "guerra del petrolio".[59] Nel gennaio 2003 le manifestazioni di protesta si estesero a moltissime città tra cui Roma, Parigi, Oslo, Rotterdam, Tokyo, Mosca. Il 20 marzo, giorno di inizio del conflitto, migliaia di manifestazioni e proteste si tennero in tutto il mondo.[60]
La "Coalizione dei volenterosi"
Fin da prima della controversia all'ONU, Bush e i suoi alleati (fra cui il premier britannico Tony Blair) avevano cercato di raccogliere una coalizione favorevole all'invasione dell'Iraq, per ottenere una risoluzione favorevole alla guerra, o perlomeno una certa copertura politica. Il rafforzamento militare della coalizione era secondario, in quanto nessun Paese "invitato" disponeva di forze confrontabili con quelle anglo-americane.
Il 27 marzo 2003 (cioè durante l'invasione) la Casa Bianca diffuse un elenco. dei membri della coalizione, allora composta dai 49 paesi; il livello di coinvolgimento andava dalla partecipazione militare (Stati Uniti, Gran Bretagna, Polonia, Australia) al supporto logistico, al semplice appoggio politico. Bush definì questi Stati (molti dei quali inviarono poi in Iraq dei contingenti militari) come la "coalizione dei volenterosi" (coalition of the willing).
Molti tuttavia fecero notare l'assenza di paesi importanti come Francia e Germania e lo scarso contributo del mondo islamico, presente solo attraverso il Kuwait (che ricambiava l'aiuto ricevuto 12 anni prima facendo da base principale per l'attacco), la Turchia (che permise l'uso del proprio spazio aereo, ma non il transito della fanteria statunitense), l'Afghanistan, l'Azerbaigian e l'Uzbekistan (che diedero contributi puramente simbolici).
A titolo di esempio, nel febbraio 2006 restavano in Iraq circa 140.000 soldati statunitensi e 8.000 soldati britannici, cui si aggiungevano 3 contingenti fra 1.000 e 5.000 uomini (Corea del Sud, Italia, Polonia) e altri 18 più piccoli. Le forze della coalizione erano americane per l'87%, britanniche per il 5% e di altre 21 nazioni per il rimanente 8%. Queste proporzioni erano rimaste grossomodo costanti fin dalla tarda primavera del 2003; tuttavia, a seguito del ritiro di diversi contingenti (fra cui quelli italiano) avvenuto durante il 2006 e dell'aumento (noto col termine inglese di surge) degli effettivi USA in Iraq, durante il 2007 il "peso" statunitense è stato ben superiore al 90%.
I preparativi militari
Per quanto il presidente statunitense Bush sostenesse che la decisione di invadere l'Iraq non fosse stata ancora presa, il comando americano cominciò con largo anticipo a pianificare l'invasione, inviando grandi forze in Kuwait. Nella primavera 2002 la stampa USA descrisse i probabili piani di attacco: una campagna relativamente breve ma molto massiccia di bombardamenti aerei sarebbe stata combinata con la rapida avanzata di un esercito relativamente piccolo ma molto mobile, dotato dei più moderni mezzi. Il principale timore era che questa forza perdesse molti dei propri vantaggi se l'esercito iracheno si fosse asserragliato nelle città. Parecchi militari ritenevano quindi inadeguata sia la forza di 70.000 uomini proposta dal segretario alla difesa Donald Rumsfeld (per confronto, l'esercito che nel 1991 aveva riconquistato il Kuwait era di oltre 500 000 uomini), sia le stime che parlavano di un'occupazione di circa un anno: ad esempio, il capo di stato maggiore dell'esercito USA, gen. Shinseki dichiarò di ritenere necessarie "diverse centinaia di migliaia di uomini" "per diversi anni". Alla fine gli USA e i loro alleati schierarono circa 250.000 uomini, metà dei quali marinai od aviatori.
Inoltre le incursioni aeree sulle no fly zones furono intensificate: già nel settembre 2002 furono condotte incursioni che coinvolsero oltre 100 aerei. Alla fine dell'autunno le truppe americane erano pronte all'invasione, prevista nei mesi relativamente freschi dell'inverno, ma che fu ritardata di alcuni mesi dal protrarsi della controversia all'ONU (forse perché la loro presenza minacciosa aveva spinto Ṣaddām a piegarsi alle ispezioni).
I combattimenti
La guerra iniziò la mattina del 20 marzo del 2003, poche ore dopo un ultimo rifiuto di Saddam Hussein di abbandonare il potere e andare in esilio. Al 2 maggio l'Iraq era già stato bombardato dalla coalizione con più di trentamila bombe oltre a ventimila missili Cruise ad alta precisione paralizzando il paese[61].La coalizione disponeva di un esercito di circa 260 000 uomini, cui si aggiungevano alcune decine di migliaia di componenti della milizia curda dei peshmerga. L'esercito iracheno contava invece poco meno di 400.000 uomini (di cui circa 60 000 Guardie Repubblicane), più circa 40.000 paramilitari dei Fedā'iyyīn Ṣaddām e ben 650 000 uomini ufficialmente parte della riserva. L'esercito iracheno era però male armato e scarsamente motivato; anche i reparti di élite della guardia repubblicana avevano mezzi piuttosto malconci (le sanzioni avevano impedito l'importazione di pezzi di ricambio). In effetti, gran parte delle unità irachene si disintegrarono prima di incontrare il nemico, per via dei bombardamenti e dell'incompetenza o delle diserzioni dei loro comandanti (spesso corrotti dalla CIA).
L'attacco di terra fu quasi contemporaneo a quello aereo. Poiché la Turchia aveva negato il transito alla fanteria,[62] quasi tutte le forze della coalizione partirono dal Kuwait, anche se nel nord una brigata di paracadutisti e diverse unità di forze speciali si unirono ai peshmerga.
L'avanzata fu rapida: già nella serata del 20 marzo le forze britanniche e i Marines avevano occupato il porto di Umm Qaṣr,[63] impossessandosi dei giacimenti petroliferi del sud dell'Iraq, ed erano in prossimità di Bassora (che però fu presa solo il 6 aprile);[64] il grosso degli americani avanzò invece verso ovest e verso nord, evitando di prendere d'assalto le città salvo quando necessario per impossessarsi di ponti sul Tigri o sull'Eufrate.
Gli Iracheni opposero resistenza per alcuni giorni nei pressi di Hilla e Karbala, aiutati da una tempesta di sabbia e dalla necessità americana di rifornire i propri mezzi. Tuttavia il 9 aprile, due settimane e mezzo dopo l'inizio dell'invasione, gli americani entrarono nella capitale irachena dopo il vittorioso esito della Battaglia di Baghdad.[65] Di lì a poco le rimanenti difese irachene crollarono: il 10 aprile i Curdi entrarono a Kirkuk e infine il 15 aprile cadde anche la città natale del rais, Tikrīt.
La fine
Il 1º maggio 2003 il presidente Bush atterrò sulla portaerei Abraham Lincoln (che aveva partecipato alle operazioni in Iraq e stava rientrando alla base) e vi tenne un discorso avendo alle spalle uno striscione che diceva Mission Accomplished (Missione Compiuta).[66]
Nel discorso Bush proclamò la conclusione delle operazioni militari su larga scala in Iraq. Tuttavia nelle settimane successive in Iraq vi fu un drammatico aumento di tutti i tipi di crimini (dal saccheggio dei musei agli attacchi alle truppe della coalizione) per via della scarsità del personale dedicato a mantenere l'ordine e la sicurezza.
Epurazione del vecchio regime
La caduta del regime iracheno ha determinato l'arresto o la morte di molti importanti esponenti, sia politici che militari, un tempo alla guida del paese. Per facilitare la cattura i soldati americani vennero dotati di un mazzo di 55 carte da poker da uno recanti le immagini e i nomi dei gerarchi più importanti da arrestare; il mazzo di carte prese il nome di Most wanted iraqi. L'arresto più importante fu quello di Saddam Hussein avvenuto il 13 dicembre 2003, mentre i figli di Saddam (Uday e Qusay) furono uccisi.
I leader del vecchio regime vennero processati da un tribunale iracheno costituito ad hoc, il Supremo tribunale criminale iracheno.
Alcuni importanti esponenti risultano tuttora latitanti[67]:
- ʿIzzat Ibrāhīm al-Dūrī; ex Vicepresidente del Consiglio Rivoluzionario
- Hānī al-Laṭīf al-Tikrītī; ex capo dei Servizi Speciali
- Ṭāhir Ḥabbūs al-Tikrītī; ex capo dell'Intelligence
- Sayf Ḥasan al-Rāwī; ex comandante della Guardia Repubblicana
- Rāfiʿ al-Laṭīf Tilfah
- Rukan al-Ghafārī; ex Capo del Consiglio Tribale
- Rashid Kazim; ex dirigente del Baʿth
- Yaḥyā al-ʿUbaydī
- ʿAbd al-Baqī al-Saʿdūn; ex dirigente regionale del Baʿth