Mappō Tōmyōki
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Il Mappō tōmyōki (giapponese; 末法燈明記; "Il Trattato della Lampada che illumina l'era degli ultimi giorni del Dharma"; 末法 mappō = "era degli ultimi giorni del Dharma", rende il sanscrito saddharma-vipralopa; 燈明 tōmyō: "lampada"; 記 ki: "trattato") è un breve testo buddista, extracanonico, in lingua giapponese, che si svolge per mezzo di domande/risposte, risalente al periodo Heian (794-1185) e tradizionalmente attribuito a Saichō (最澄 anche Dengyō Daishi 伝教大師; 767–822), il fondatore della scuola buddista giapponese Tendai (天台宗, Tendai-shū), questa erede della scuola buddista cinese Tiantai (天台宗, Tiāntái zōng, risalente al VI secolo), lignaggio acquisito da Saichō durante il suo pellegrinaggio in Cina (804-805).
La tradizionale attribuzione a Saichō del Mappō tōmyōki è considerata autentica anche da diversi studiosi moderni, mentre altri lo considerano invece un testo "apocrifo", ritenendolo opera di un anonimo buddista appartenente alle scuole della "Terra pura" vissuto nel Periodo Heian[1].
Di certo il Mappō tōmyōki ha profondamente influenzato il pensiero di importanti esegeti buddisti giapponesi del successivo periodo Kamakura (1185-1333): Eisai (栄西, 1141-1215, fondatore dello Zen Rinzai), Dogen (道元, 1200-1253, fondatore dello Zen Sōtō), Shinran (親鸞, 1173-1263; fondatore della scuola Jōdo Shin) e Nichiren (日蓮, 1222-1282, fondatore del buddismo Nichiren), furono enormemente influenzati da questo testo[2].
Il Mappō tōmyōki consiste in una risposta di natura 'teologica' al tentativo dell'imperatore Kammu (桓武, 781-806) di ristabilire i precetti monastici (律宗 ritsu; sanscrito: vinaya) nel paese, alla stregua di quelli seguiti dalla comunità monastica della città di Nara (sede della corte imperiale) dove peraltro aveva sede l'unica scuola che poteva formalmente ordinare i monaci buddisti, la scuola Ritsu (律宗, Ritsu shū o Risshū) fondata in Giappone dai monaci cinesi Dàoxuán [Lüshi] (道璿[律師] 702-760, giapp. Dōsen [Risshi]) e Jiànzhēn (鑑眞, 688-763; giapp. Ganjin), la quale predicava lo studio e l'osservanza del Cāturvargīya-vinaya [3], vinaya dell'antica scuola indiana dei Dharmaguptaka.
Il testo sostiene che l'imperatore, e il suo governo, nel criticare i costumi mondani, ovvero il fatto che i monaci non seguivano i precetti del vinaya, dimenticano che questi vivono nel periodo di mappō ovvero durante l'era degli ultimi giorni del Dharma, quindi non potevano certo seguire i precetti propri di coloro che operavano ai tempi del Buddha, ovvero durante l'era shōbō (正法, "era del vero Dharma").
Così nel periodo di mappō, secondo Mappō tōmyōki, solo gli insegnamenti verbali sopravvivono mentre l'illuminazione non è conseguibile, né praticabile, e i precetti sono quindi scomparsi: criticare chi non segue i precetti è insensato in quanto non si può seguire ciò che non esiste più; di converso, obbligare a seguire i precetti significa solamente "falsare" la situazione. E i monaci che insistono nel seguire i precetti altro non sono che insetti che distruggono il Dharma e il paese, in quanto dimenticando il fondamento umano e quindi vivo del Dharma, lo rendono nella sua pura e inutile formalità.
Per l'autore, i monaci dell'era di mappō, monaci anche se solo nel nome e non nei precetti religiosi, restano comunque il solo e unico "Tesoro del mondo", in quanto ne rappresentano il livello più alto raggiungibile: avendo rasato il capo e indossato l'abito monastico hanno realizzato la massima condizione possibile per gli esseri umani, di gran lunga superiore alle comuni modalità di vita. Essi sono ora gli unici che indicano la via della liberazione agli uomini.